lunedì 20 ottobre 2008

Pen-sieri Sieri di penna


PEN-SIERI
Sieri di penna
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Immagine di B. Carollo
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Numerate fiale ermetiche di siero
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119.

In un paesino c’è una piazza immensa. I suoi confini non sono conosciuti. Si vede l’inizio ma nessuno ha mai percorso tutta l’estensione. Non si sa da quanto tempo esista e chi e perché l’ha costruita. È una piazza asfaltata perlopiù o lastricata; grande, smisurata come il mare. Il paese è piccolo, modesto, senza fabbriche, di circa tremila abitanti. Nel centro assolato e desertico della Sicilia. I ragazzi ci si avventurano a passeggiare ma hanno una specie di timore reverenziale. E se si spingono oltre li prende la paura e vogliono subito tornare a passeggiare nella piazza ma lambendo i caseggiati, o comunque tenendoseli a vista d’occhio. E’ come se avessero paura che un sortilegio li colpisse. Come se la stessa piazza fosse il risultato di un incantesimo inspiegabile perpetrato tanto tempo fa. Spulciando nella biblioteca del paese non ci sono notizie circa l’origine della piazza. Sembra che ci sia sempre stata. Una specie di reticente omissione prende gli storici locali che cominciano come al solito i loro libri con l’incipit rassicurante “Alqamah è una ridente e operosa cittadina adagiata alla falde del Monte Bunifat…”, ma fanno bene attenzione a non menzionare la piazza in questione: come se non esistesse. Tutti, in effetti, in paese fanno finta che non esista e non ne parlano mai nei loro discorsi. Solo i bambini e i ragazzini a una certa fase della loro età ne discutono animatamente, ma poi, dopo un certo periodo, rimuovono il problema e continuano la loro vita di sempre. Solo al fuoco dei focolari in certe notti stellate di villeggiatura i vecchi possono a volte essere indotti dai più giovani a vincere la loro estrema riluttanza. Allora qualcuno degli anziani, dicono, si sia lasciato scappare qualcosa, ma è tutto un farfugliamento e non si ha alcuna certezza. C’è chi sostiene, per esempio, che nessuno vada verso il centro ignoto della piazza immensa perché questa potrebbe improvvisamente trasformarsi in un mare o in un lago senza confini e far annegare chi ha osato avventurarsi lontano. A volte per la verità qualcuno si è inoltrato in fondo ma non è più tornato. Qualche altro che è andato a cercarlo è tornato senza ritrovare niente e si è chiuso in un ostinato mutismo, o in logorroiche perifrasi senza peraltro riuscire a spiegare nulla. Di sicuro c’è che penetrando nella piazza, di quanto ti allontani verso il centro ignoto di tanto sembra avvolgerti in una specie di magia, per molti di maleficio. Qualche decennio fa si organizzò una vera e propria spedizione, con carretti, muli, cani, tende e viveri. La spedizione tornò dopo due anni e il suo unico risultato fu di trovare solo degli scheletri di umani sul selciato infinito in ogni direzione. E nessuno poté dire di essere arrivato al centro della piazza o di averne percorso una precisa quantità, perché non si può stabilire dove sia il centro di uno spazio indefinito in ogni direzione, né quanta distanza sia stata percorsa rispetto all’interezza della piazza che rimane del tutto sconosciuta. Uno dei misteri è la pavimentazione della piazza, fatta di asfalto, selciato, blocchi di pietra e di altro materiale più povero e via via più naturale, come terracotta, poi terra schiacciata con paglia, poi semplici pietre a secco sempre più sconnesse. Qui bisogna fare una precisazione. Non è che la piazza sia davvero non misurabile. Diciamo che fisicamente è attraversabile ma, nonostante ciò, la sua sostanza resta misteriosa ed infinita. Infatti alcuni delle avanguardie delle carovane esploranti sono riusciti a raggiungere un luogo nel quale l’asfalto finisce e comincia senza soluzione di continuità la campagna. Una campagna brulla, silenziosa, calcinata e disabitata. Ma scavando sotto la terra rocciosa dove crescono solo arbusti, muschi e licheni, si è scoperto in uno strato sottostante un resto di antiche pavimentazioni di pietre a secco sconnesse. Molti per la verità affermano che non sono opera dell’uomo ma della natura con le sue casuali sedimentazioni rocciose. Altri invece sostengono che la piazza continua. Perciò non si può stabilire se in tempi antichi la natura non abbia preso il sopravvento sull’asfalto o su altro tipo di pavimentazioni e abbia semplicemente coperto ed occultato la piazza. Infine c’è chi sostiene che se anche la piazza finisse e cominciasse la campagna, sarebbe lo stesso: chi può escludere che il progetto originario non prevedesse appunto tale suo “innaturamento” nella campagna? Chi ci dice che la campagna non faccia parte della piazza? I puristi della tesi massimalista dell’estensione infinita della piazza arrivano a postulare che essa comprenda originariamente secondo il progetto dei suoi costruttori anche la campagna circostante, il mare, i monti e tutto il resto, cieli compresi. Poi c’è chi si arrovella su chi sia o possa essere stato il costruttore di una simile piazza. Uno? Molti? E le motivazioni? Il fatto è che comunque nel paesino nessuno ne parla volentieri e tutti, ripeto, vivono facendo finta di niente. Molti restano nel paese fino alla morte, altri tentano la fortuna cercando di sfidare la piazza. Tutti alla fine muoiono nel tentativo di percorrerla per intero. Questa piazza deve però sicuramente portare una maledizione, perché nessuno alla fine ritorna indietro vivo. Anche chi vive cento anni nel tentativo di attraversarla muore senza saperne i confini. Tanti hanno perciò deciso di adorare il costruttore misterioso della piazza. E pur senza conoscerlo sostengono di avere fede in lui e affidano la propria vita a lui. Altri non ci credono; la maggior parte vive come se non esistesse né la piazza né il problema del credere o no a chicchessia. Io sono uno di quelli che in tempi lontani, quando ero giovane, si incamminò dentro la piazza deciso a percorrerla fino in fondo. Man mano stendevo scrupolosi appunti di viaggio ma ora vedo che questi appunti mi hanno ostacolato o forse semplicemente mi hanno portato sfortuna. Capisco di essere caduto anch’io vittima del contagio. Allora ho strappato tutti i fogli scritti in precedenza e anche quest’ultimo foglio che sto scrivendo farà la stessa fine. E’ meglio non parlarne più e proseguire muto. Tanto non saprò mai la vera sostanza e l’entità nascosta di questa piazza misteriosa. Meglio non pensarci e vivere come tutti gli altri. Ma il fatto è che se uno comincia a porsi il problema allora la passione lo porta ad avventurarsi dentro la piazza. E a restare inghiottito nella vastità del suo centro infinito. Scrivo questi ultimi appunti e li abbandono in mezzo alla piazza al centro della quale (al centro? Chissà…) mi spinsi molti anni fa col solo risultato di essermi irrimediabilmente perso come tutti gli altri. Non si vedono più forme viventi, né vegetali né animali, nel cielo c’è solo appena un alito di vento che presto si fermerà in un’assoluta bonaccia. L’alternarsi di giorni e di notti si è alterato e un giorno dura tantissimi giorni. O forse così a me sembra perché comincio a perdere la cognizione di me stesso e dei miei organi sensoriali. Ora camminerò in una direzione qualsiasi, solo, senza quasi più viveri, e senza speranza di trovare la via d’uscita. Non scriverò più e forse nessuno mi troverà mai. Vivo o morto che sia.

120.

120.1
Un primo piano di una donna e di un uomo. Sono vicini, chiacchierano, si stanno seducendo, ridono. Lui socchiude a volte gli occhi luminosi. Lei risponde con colpi di ciglia rapidi; un sorriso delle labbra appena accennato. Da distanze indefinibili a intermittenza ovattata si espande gracchiante e nasale una maliziosa voce maschile di una melodia d’altri tempi; forse c’è un vecchio grammofono dorato da qualche parte. I due sono eleganti, in abiti da sera. Lei è in decoltè; un pendente luccicante al collo tenuto da un’esile catenina d’oro. Lui, con i capelli imbrillantinati e un ineccepibile gessato, le accarezza l’omero delicatamente con l’indice in un gesto naturale mentre continua a parlare fissandola. Il primissimo piano si allarga di un metro e scopro che sono seduti su di un divano rosso. E’ un divano in stile classico barocco, con la stoffa di broccato pregiato a motivi floreali bianchi su fondo rosso; il legno è scuro, tutto intarsiato e intagliato con figure mitologiche. Mostri, fauni, centauri, silfidi, ninfe. Posso scrutare come al microscopio le trame naturali del legno. Il divano è grande e vetusto. Qua e là qualche buchino attesta la presenza di termiti. Non riesco a seguire la conversazione, non perché non sia in italiano – capisco che parlano in perfetto italiano – ma è come se le parole mi arrivassero deformate da difetti fonici. Come un brusio derivato da una distorsione della pronunzia; una specie di cicaleccio. Più mi concentro più non riesco ad acchiappare il bandolo della conversazione. Soltanto qualche parola mi arriva perfettamente distinta, qualche parola e basta. La zumata si allarga ancora di un altro metro e vedo che i piedi a testa di leoni del divano sono semisommersi dalla sabbia. Il vento, che ora si ode fortemente a raffiche ululanti – era per causa del vento che non potevo seguire la conversazione? – solleva vortici di sabbia che si accumula a terra, attorno ai piedi del divano e anche sui grossi cuscini. I due continuano a parlare amabilmente trascinati dal gioco della seduzione e dalle regole galanti della conversazione borghese. La zumata si allarga fino a divenire un grandangolo e ora vedo il divano e i due che conversano molto lontani. Sono soli, seduti sul divano in mezzo a dune di sabbia. Enormi e chilometriche dune di sabbia come onde che si rincorrono parallele a perdita d’occhio. Il divano si distingue appena nell’intercapedine di due dune fra innumerevoli altre dune. Siamo in un punto imprecisabile nel cuore del deserto del Sahara. Il vento ulula e alza una tormenta di sabbia. Il sole sembra piantato con i chiodi nel mezzo esatto del cielo: non si muove di un millimetro. La luce accecante rende ogni cosa luminosa e senza spessore. Luminosa fino all’estremo biancore insostenibile.

120.2
Il divano con i due è sulla punta dell’Everest. Estremi picchi montuosi, ghiacci. Di lato si intravede lontanissima una stradina senza protezione in un fianco del monte a dirupo sull’abisso. Solo qualche yak piantato sugli zoccoli si è inerpicato quasi fino a loro. Il suo occhio convesso riflette in un bianco e nero deformato il divano e i due che continuano a parlare amabilmente del più e del meno.


120.3
Il divano rosso, il divano barocco con i due, è ora in una grotta sommersa in fondo all’oceano. Stranamente mi sembra naturale che possano respirare sott’acqua come se nulla fosse. Il divano è asciutto e anche loro. Le parole si sentono amplificate ed echeggianti nella massa blu dell’acqua. Ma si confondono con lontani ancestrali respiri di capodogli e canti di megattere in amore.

120.4
I due sul divano sono vivi? Sono morti? Sto forse sognando? In che modo io posso vederli? E’ un messaggio per me di qualche maestro occulto mandato da mie esistenze passate o future attraverso i sogni? Devo capire qualcosa? E cosa? Cosa può simboleggiare tutto questo? Chi sono questi due? Mi sembrano sconosciuti. Saranno miei lontani progenitori? O forse miei successori? Figli dei figli dei miei figli? Non saprei. Potrebbe essere la visione di un mio momento vissuto in futuro? O in vite future? O in vite passate? Il maschio potrei forse essere io in qualche altra incarnazione? Allora se prendiamo le possibili incarnazioni potrei essere io anche la donna. Potrebbe perfino darsi il caso che possa essere io sia la donna sia l’uomo: cioè loro due potrei essere io in separate esistenze. Due me di esistenze diverse che nella visione possono incontrarsi e parlare. In questo caso sarebbe stato importantissimo sapere cosa si stessero dicendo. Ma non è dato di saperlo: la conversazione purtroppo era indistinguibile. Ma sembrava una conversazione effimera e fatua! Però poteva darsi che sotto la leggerezza di una conversazione galante i due me mi stavano mandando un messaggio di vitale importanza, chi lo sa. Se lui ero io forse lei poteva essere la mia anima gemella? Poteva anche essere la morte? La morte potrebbe venire come una sensuale donna per sedurmi? O era il mio angelo custode? O ero entrambi io, come avevo detto prima, solo che uno dei due ero forse io illuminato e tornato sulla terra come buddha perfetto per parlare con l’altro me che ancora doveva percorrere infiniti kalpa ed eoni di karma per raggiungersi. In questo caso può essere che la nostra identità sia divisibile in identità plurali di esistenze parallele? Di esistenze che però possono infrangere il velo dello spazio-tempo dentro il quale stanno scorrendo? Come mai il divano si trovava in posti così estremi? Significa forse che tutto il mondo consueto è solo uno scenario di parvenze? Che tutto il nostro pianeta è un teatro di ombre cinesi? Forse i due erano il principio maschile e quello femminile – yin e yang – dell’universo? Può darsi che erano Dio padre e la Madonna? Saprò mai rispondere anche solo in parte a queste domande? E se anche potessi trovare queste risposte, chi mi dice che le domande decisive non erano altre e totalmente diverse da queste che mi sto facendo?

sabato 18 ottobre 2008

Calatubo, eutanasia di un castello


Vorrei scrivere questa nota per aforismi, quasi con pensieri franti, come si addice alla descrizione di un castello che si frantuma.
Calatubo è il sito più antico del territorio alcamese, il più anticamente importante, con continuità di insediamenti dalla preistoria alla protostoria, al medioevo.
Fu un centro della cultura sicana, greca, romana, araba…
Idris lo descrive nel 1154 come un grande casale arabo, pieno di vita, con campi di grano ben coltivati, con un porto di mare.
E’ abbandonato, violentato, rubato pezzo per pezzo, mattone per mattone, pietra per pietra, obliato.
Scavato clandestinamente da tombaroli perfino con ruspe.
La necropoli completamente saccheggiata, cancellata; le ossa dei morti oltraggiate, disperse.
Ci ha dato frammenti, vasi greci, coppe ioniche, kilikes, skyphoi, anfore, lucerne ombelicate, assi romani, anse con bolli di Rodi, di magistrati eponimi, che ricostruiscono indirettamente le vie mediterranee del vino, del grano, dell’olio.
C’è un reperto misterioso poi, naturalmente trafugato e perduto: una maschera fittile di produzione locale del VI secolo a.C..
E’ un volto magnetico, ha occhi a mandorla che fissano lontano, stregano, e un naso prominente sulla bocca atteggiata a un enigmatico sorriso. Potrebbe essere maschio o femmina, un giovane o una vecchia; fissa i millenni, penetra nell’oltretempo: è il volto di uno sciamano elimo o il sorriso dell’Essere originario?
Il castello di Calatubo fu edificato superbamente su una rocca a strapiombo per essere inespugnabile.
Con una battaglia sul campo sarebbe stato imprendibile, invece è stato distrutto, quasi raso al suolo.
Chi lo progettò non poté prevedere la venuta di un nemico così barbaro.
Il castello di Calatubo infatti non è caduto a seguito di un’invasione dei Vandali o dei Visigoti ma per mano di una più terribile orda barbarica: l’ignoranza e l’inanità delle amministrazioni comunali.
Altra invasione dunque più subdola lo ha abbattuto, meno clamorosa, meno combattibile e più esiziale.
Un serpentone autostradale lo irride, il tempo lo erode, l’indifferenza lo sommerge.
E muore in una malinconica eutanasia.
Sarei tentato di plaudire a questa estasi d’abbandono: c’è poesia, emblema, contrappasso, destino, la cifra della Sicilia eterna e maledetta.
Sensuale misticismo d’atarassia nell’oblio.
E’ il sorriso ironico dell’eternità, il sorriso di sciamano del misterioso uomodonna della maschera.
Ogni tanto una sparuta delegazione di pinguini in giacca e cravatta si arrampica fino alla rocca, celebra sbrigativamente un rito di vuote parole, assicura l’impegno inderogabile per salvare il castello: sono assessori, sindaci, onorevoli.
Vi dico: piuttosto che questo teatrino meglio il silenzio. Non parliamone più.
C’è almeno poesia in questa rovina senza ritorno, nel mormorare del torrente Finocchio tra una raffica di vento e l’altra nelle torri diroccate, in un’ape che sopra i fiori viola del camedrio sibila preghiere in voli trattenuti e improvvise accelerazioni circolari come un dervisci in estasi in una danza sufista.
Il castello si inabissa lentamente in una lotta impossibile contro l’eternità e cede alle ultime dolci invasioni: l’abbandono, le argentee colonie di assenzio, gli eserciti dell’ortica, della malva verde, le piante pendenti di capperi fioriti nei muri…
Cede anche all’oltraggio distratto di un pastore che da decenni vi dimora col suo ovile e forse non ha pensato di essere l’ultimo abitante di Qal’at awb, il grande casale arabo, l’ultimo signore del castello dopo una interminabile catena di nobili: … Berloni, Peralta, Duca di Bivona, Moncada, De Ballis, Papè, principe di Valdina…
Le pecore, le bibliche semitiche pecore.
Quella in fondo ad est, triangolare, è la “torre dei colombi”, sempre piena del loro tubare gutturale, come volessero comunicarci il segreto del castello con i suoni criptici di un alfabeto esoterico.
E questa di Sud ovest è (era, è crollata da due anni) “a turri d’u Re Biddicchiu”.
Il barone D. Nicolò Flugj Papè nel libro Calatubo di mons. Regina: “(…) sotto questa torre si trova una galleria segreta. Fu murata all’inizio del secolo dal principe D. Pietro Papè in seguito al grave incidente occorso a un giovane impiegato del castello. Vi era entrato per curiosità e ne era uscito muto per sempre, forse traumatizzato dal rinvenimento di scheletri umani: si trattava di resti mortali venuti probabilmente alla luce durante le vangature ed ivi depositati. Era chiamata la torre d’u Re biddìcchiu perché secondo una leggenda vi era stato tenuto prigioniero un figlio ancora in tenera età, forse naturale, del re Martino”.
Meglio non entrare nei cunicoli, potrebbero assalirvi voci di fantasmi, di turchi, i lamenti di “u re Biddicchiu”, o il volto di medusa della maschera dello sciamano.
Dal castello tutto è magia, apparizione iniziatica, vertigine: il mare sembra una stoffa, le montagne onde improvvisamente pietrificatesi, le colline tappeti volanti.
Trent’anni dopo del geografo Idris, nel 1184, il pio pellegrino della Mecca, l’andaluso Ibn Gubayr, naufrago in Sicilia, partendo da Palermo e diretto a Trapani, arrivato a Carini, preferì la via interna e passò per Calatubo. Quindi sostò una notte in una borgata detta Alqamah, piena di mercati e moschee: “(…) Di là partimmo e dopo un breve tratto arrivammo al castello detto Hisn allamah (castello dell’acqua termale). Scendemmo dai cavalli e ristorammo i corpi con un bagno…”.

venerdì 17 ottobre 2008

ERAM MARE



Romanzo

ERAM MARE

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Immagine di B. Carollo

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Introduzione

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30 agosto 1998 domenica Alcamo via Archimede 14


Cammino in un corridoio di una casa infinita, a destra e a sinistra quadri di antenati, baffi barbe basettoni, qualche cardinale, mi accorgo che il corridoio è lungo a perdita d’occhio, semibuio solido, una luce tisica filtra obliqua da fenditure laterali, in alto vedo un’altra fila di quadri poi un’altra ancora e sempre altre nella penombra, non si vede il tetto e forse tutte le stanze sono esposizioni di volti, busti gesti espressioni di oblii, indugio in ipnosi davanti a un enorme dipinto che raffigura un uomo seduto in un letto intento a infilarsi un calzino, mi fissa e i suoi occhi sono vivi, dal fondo del corridoio una grassona nuda avanza verso di me, rimbombano sul pavimento le piante dei suoi piedi, mentre si avvicina noto che ha un corpo di pachiderma con pieghe e masse di carne che penzola, riesco stranamente a vederla nel contempo di davanti e dietro, ha un culo abnorme oscenamente enfatizzato da un volgare tanga rosso ma un viso divino di bimba con un’aura di luce dorata, un sussurro mi svela che è la Madonna, scarafaggi neri con corazze lucide entrano in una crepa della parete, davanti a uno specchio mia madre adolescente si pettina i lunghi capelli, luce radiosa nella grande stanza senza niente, nessun mobile, niente, solo lei che si pettina i capelli allo specchio e i muri irregolari di calce bianca delle pareti scrostate, in un’alcova interna della finestra colombe battono le ali e tubano, nella cattedrale luce discendente da vetrate rossoblu, santi, un prete dice messa, il resto della chiesa è penombra, da un organo note lontane, anche l’omelia è atona, le parole si distinguono con difficoltà, vanno e vengono, nelle prime file solo poche vecchie grinzose inginocchiate sussurrano preghiere, buio tutto intorno con chiazze di luce giallastre da ceri lumini e candele di cappelle delle navate laterali, lunghi colonnati, nelle volte affreschi di trionfi di Madonne con tripudi di angeli e allegorie, odore d’incenso misto a acqua benedetta gelsomino e muffa, dal fondo buio un gregge invade la chiesa, anche il suono dei campanacci al collo è attutito fino a svanire, solamente in un silenzio fondo si sentono zoccoli cartilaginosi che calpestano il marmo, è la basilica di Alcamo, vedo un millepiedi su una colonna di marmo rosso dove è fossilizzata una gigante lumaca, ammonite, la basilica è ora un rudere diroccato in aperta campagna, se si scava intorno si potrebbero scoprire le rovine di una vecchia città, Alcamo, ancora capre e il loro viso semita in mezzo a resti della cupola e ritagli di affreschi ammuffiti, il sole in alto avvampa, gli ulivi di una stampa di Van Gogh – al primo piano di casa mia mentre sono seduto alla scrivania con la lampada accesa – cominciano a stormire sotto il soffio di un vento interno al quadro, vedo brillare una tendina in controluce dall’interno buio di una stanza, suono della tendina di strisce verticali di plastica trasparente agitate da un lieve vento, fuori una luce accecante appiattisce le cose, pescheria di Alcamo, tavolini di ferro lucido di un bar, luce insostenibile, vecchi vestiti di nero, alcuni con una fascia nera al braccio giocano a scopa, per la troppa luce quasi non vedo niente, ogni cosa è senza dimensione, fluida e continua, i rumori sono amplificati come in fondali sottomarini, mio padre morto da tre anni passa chiacchierando con altri due, mi guarda, sento solo la sua voce in un irreale silenzio, passa avanti senza riconoscermi, dopo un po’ un corteo funebre segue una carrozza trainata da quattro cavalli neri bardati, anch’essa è nera con pareti di cristallo e putti, arriva dal Corso, sta passando, si sentono solo le ruote e i cigolii delle molle, dentro la carrozza mi guarda una bimba triste e stupenda con ali bianche slanciate, stessa scena ma con dentro la carrozza milioni di topi che annusano per uscire, dentro la carrozza uno storpio – ha addome gambe e zoccoli di capro – sodomizza un angelo, domenica di sole, piazza Ciullo deserta, rondini volano basse controsole in cerchi, globi di luce abbagliante, una campana squilla a lunghi intervalli, vedo la piazza in un istante dall’alto e dal basso, nella piazza deserta una bimba vestita da prima comunione gioca al Torno, tira una pietra e saltellando recita una filastrocca, in un cesso del cinema Ideale, angusto sgabuzzino senza mattonelle, una lampada gialla pende da un filo piena di polvere ed escrementi di mosche mentre il vecchio gobbo Casarelli fa una fellatio a un ragazzino di 12 anni abbordato nel buio della sala, il prof. di letteratura Panella con occhialini a cerchi dorati e barba sessantottesca parla di arte e realtà ultima in modo contorto con un altro in giacca e cravatta lungo il marciapiede del Corso Sei aprile, improvvisamente proprio davanti a loro un muratore precipita sull’asfalto da un’impalcatura del quarto piano, un tonfo, morto sul colpo, Panella e l’altro continuano indifferenti a discutere gettando solo uno sguardo distratto sul cadavere e senza interrompersi passano oltre, da una finestra vedo il mare e una rete di pescatori con brandelli di corpi umani impigliati, seduti a ripararla centinaia di preti in tunica nera si perdono nella prospettiva, fra le teste impigliate riconosco alcuni familiari, volti di amici scordati, di conoscenti del servizio militare e di passanti intravisti un secondo, lontano sulle onde del mare nella notte galleggia una cattedrale è la basilica di Alcamo illuminata, file di ceri accesi ondulanti sull’acqua, mentre la basilica si allontana trascinata lentamente dalla corrente un prete calvo con collo taurino e cranio bitorzoluto percorre la navata centrale e prega in ginocchio sotto l’alto crocifisso, è molto contrito, piange e nel contempo si vede che dai bottoni della tonaca gli esce fuori un grosso pene con le vene in evidenza e il glande pulsante che quasi gli arriva sotto il collo, in un cimitero comunale tra tombe croci e monumenti marmorei un party con gente ingioiellata e in abiti da sera, alla luce rossa di lumini riverberanti sulle lapidi si parla amabilmente, si fanno presentazioni, il cimitero è pieno, pure i colombari sotterranei sono pieni, a più file le foto dei defunti, anch’io mi aggiro fra loro cercando un conoscente, nel frattempo scorro in rassegna i loculi e mi accorgo che molti visi sono proprio quelli del party, fra tanti volti scopro il mio su una lapide a muro, non ho una reazione particolare solo un leggero stupore, nel Corso Sei aprile una domenica passeggiano gli alcamesi tutti nudi, poi un esodo di popolo che sfolla nudo in tutte le strade, in un letto un uomo e una donna scopano, si dicono frasi oscene mentre sono stravolti dall’eccitazione e sudati, l’uomo eiacula sul viso di lei urlando Porcaaa, infinita per le strade di Alcamo si snoda la Processione alla Madonna, una processione che stavolta durerà in eterno, alla quale partecipano tutti gli alcamesi di tutti i tempi, vivi e defunti, fantasmi diafani e zombi mezzo decomposti in mezzo agli altri impassibili, nella chiesetta di San Paolo davanti all’altare un prete celebra un matrimonio tra una novantenne e un bimbo, lei è vestita da sposa con un lungo velo bianco, ha branchie al collo e una mano palmata azzurra e squamosa, Tommaso Buscetti, pentito di mafia, con riscontri inconfutabili confessa di essere stato testimone di un incontro con bacio tra Papa Giovanni Paolo II e Totò Reina, il Papa inginocchiato gli baciava l’anello, durante il giubileo il Papa affacciato alla finestra annuncia la canonizzazione del padrino capo della cupola Bernardo Provenzani, la folla acclama l’annuncio, Bruno Vespi cerimonioso gli dedica la trasmissione PortoaPorto facendogli firmare con il rito della punciuta un contratto con gli italiani, una mattina dal cielo scendono gli angeli, se ne incontrano nelle vie del centro antico, sono alti, muti e hanno ali enormi, tornando da un viaggio scopro che il paese è completamente vuoto e deserto, le porte delle case sono aperte, entro e esploro, tutto è rimasto intatto e muto al suo posto, solo c’è di strano che alcuni muri di vecchie case di pietre a secco o di calce bianca hanno sviluppato uno o più occhi vivi, a volte Alcamo è totalmente sommersa dal mare, nuoto in apnea per le strade e per le scale delle case, dal cielo un giorno cadono pezzi di corpi umani, toraci, teste, mani, braccia, due uomini sono su un ascensore, non parlano, uno guarda a terra l’altro legge le scritte vicino allo specchio, l’ascensore non si fermerà a nessun piano, questa è la loro condanna eterna, ad Alcamo le strade sono deserte, un vecchio alcamese rugoso con coppola e sigaretta Alfa senza filtro in bocca arriva in piazza Ciullo, suoni sommessi di organi, seduto in una panchina Cristo, il vecchio si ferma a tre metri di distanza, lo punta con una lupara e spara ammazzandolo, si avvicina al corpo e sputandogli urla nel silenzio pieno di echi Curnutu, Pezzu ri mmerda, Si nenti mmiscatu cu nuddu, negli alti cornicioni delle antiche case neonati e vecchi putridi si muovono in equilibrio precario, non so dove sono, c’è il buio totale, una risata sonora mi sommerge, in una sala riccamente arredata di un palazzo due uomini seduti in poltrone davanti a un camino stanno conversando, ad un certo punto il padrone di casa si alza e, facendo cenno di aspettare un minuto, entra in uno stanzino attiguo dove un altro uomo seduto sta piangendo di dolore, le sue lacrime sono incanalate in appositi tubicini trasparenti fino a un recipiente di vetro a forma di alambicco, con flemma riempie due bicchieri, torna nell’altra stanza, offre da bere all’ospite e continua la conversazione, invece che in un altro stanzino l’uomo che piange è in un angolo della stessa stanza e l’operazione dei bicchieri viene svolta davanti agli occhi egualmente indifferenti dell’ospite, vecchie vestite di nero col fazzoletto nero in testa sedute in cerchio davanti a un braciere recitano il rosario, vecchie nude con solo un orologio al polso recitano il rosario, nelle strade delle maggiori città europee una nuova pubblicità, in enormi cartelloni in mezzo al traffico un bimbo nero denutrito, pelle e ossa, grandi occhi incavati pieni di mosche e zanzare ai margini, un orologio Solex d’oro luccicante al polso, la scritta del cartellone dice IL TEMPO E’ PREZIOSO, un vecchio maestro di scuola elementare davanti alla classe punisce un bambino a vergate, la classe ride, allora lo strozza, lega il cadaverino alla lavagna e viene acclamato dalla scolaresca felice, premiato da una delegazione di onorevoli con una medaglia al petto, la banda musicale suona a tutto spiano, presente anche delegazione di ex combattenti e grandi invalidi della Patria, uffici postali, il tempo è fermo, anche gli orologi si bloccano, luce bianca dalle finestre, negli occhi delle persone ordinatamente in fila una rassegnazione bovina, al di là dello sportello un vecchio nudo ingobbito e rugoso con una sigaretta un orologio al polso e le ali è l’impiegato postale, in una grande stanza quadrata molte persone sedute aspettano, hanno sguardi spenti, metafisici, c’è una luce piatta, nessuno parla, fisso i primi piani di visi inespressivi, poi mi accorgo che in fondo c’è una porta aperta con un’altra stanza identica pure piena di persone e oltre quella un’altra ancora, le stanze si vedono in prospettiva, davanti all’ingresso dell’ultima stanza chiusa c’è un vecchio usciere con grossi vetri da miope che chiama le persone ad uno ad uno per nome e cognome, esitanti entrano dentro, l’ultima stanza è vuota senza finestre ma con una luce propria e un neonato che cerca di muovere i primi passi, dentro l’ultima stanza c’è un vecchio catarroso nudo che sghignazza a più non posso, il pene gli ciondola lungo e flaccido, dentro c’è un cadavere in un letto, si vedono le suole nuove delle scarpe e un vecchio in piedi conta ad alta voce lentamente Uno due tre quattro… senza mai fermarsi, dentro l’ultima stanza c’è una vecchia puttana lasciva che aspetta i clienti, dentro c’è una Madonna adolescente bellissima che si guarda a uno specchio, ci sono centinaia di colombe che tubano e volano sbattendo forte le ali, gli ansimi e i loro suoni gutturali sono un linguaggio criptico esoterico che viene decifrato da uno stenografo seduto in un tavolino con gli avambracci della giacca avvolti in una seta nera come i vecchi giornalisti, dentro è pieno di avvoltoi, ognuno che entra viene sbranato dal loro becco adunco, dentro c’è il ciglio di un dirupo, ognuno che arriva senza mutare passo ed espressione precipita nell’abisso, dentro c’è un vecchio alto magro baffetti grigi, borse sotto gli occhi acquosi, con un gessato, azzimato, dall’aria burocratica e dietro di lui un enorme bufalo, l’uomo con un cenno ieratico dell’indice ti incoraggia ad avvicinarti come per rivelarti un segreto, quando gli sei vicino lascia partire un peto osceno che investe e abbatte a terra il montone, e comincia a torcersi dalle risate senza potersi fermare, anche l’usciere che sbirciava dall’uscio socchiuso sghignazza sdentato, poi si rifà serio e solenne e – lisciandosi con mani ossute il vecchio bisunto vestito nero – riprende a chiamare l’appello, noto che nel vecchio vestito all’altezza delle scapole ci sono due lacerazioni da dove escono due piccole ali di gallina, due dodicenni, durante l’estate che rendeva deserta Alcamo, passeggiano nel pomeriggio in cerca di qualcosa da fare, sono nel quartiere del castello, si alzano da un gradino e parlando si incamminano, scendono dalla via Barone San Giuseppe, si accorgono di una casa fatiscente sopravvissuta ai secoli con un portone eroso, il muro scrostato, c’è un cartello polveroso con la scritta SiVende, il paese sembra un esiziale villaggio abbandonato, non passano automobili né persone, non vista una vecchietta storpia e ricurva sul suo bastone viene inghiottita da una viuzza lontana, stessa scena ma la vecchia viene inghiottita da un muro lontano, calamitata mangiata dal muro malvagio, incuriositi decidono di entrare nella casa per vedere se c’è il fantasma del turco, spingono la porta che cigola e si apre ruotando su un solo cardine, l’altro è attaccato al portone e non più al telaio roso dai tarli, entrano chiudendosi la porta alle spalle, silenzio penombra solo due raggi di sole fendono il buio evidenziando un pulviscolo fino al terzo gradino, odore di muffa e piscio nelle scale piene di detriti e di cacca di colombe, salgono piano, ovunque ragnatele, uno scarafaggio nero si nasconde in una fessura di uno scalino, ai muri crescono dei funghi putrescenti, dopo una rampa entrano nell’unica stanza e vedono una donna con un velo bianco e un pallore anemico che suona un polveroso pianoforte a coda e canta ritornelli slavi, vedono un gruppo di vecchi seduti a terra tra i detriti che recitano antiche scritture in aramaico, vedono un triste angelo con grandi ali di piume bianche che dietro il vetro impolverato della finestra sconnessa guarda il cielo e conta Uno due tre quattro cinque… senza muoversi né fermarsi, mentre un vecchio salmodia queste parole
Mi aggiro stregone in una Alcamo non mia
si allungano i quartieri un vecchio porto di mare
e periferie le mie mani tristi hanno preso fuoco
processioni di bambini oranti in cimiteri
il sole rosso nella notte (ingialliti tasti d’organi cattedrali di meriggi)
come un falò scoppiato in mille sillabe
di fuoco attorno ci volano ubriachi
corvi reali alcuni muoiono bruciati
scorrono fiumi dentro di me
migrano uccelli dentro di me
solitudine di cortili mai visti dentro di me

fiori blu e rossi mi sono spuntati
negli occhi e nelle mie rughe
cresce un enorme narciso
ma le mani sono ancora accese
di fuoco triste piene d’amore a tentoni
in questa stanza inondata di interstizi

mi perdo in contrade sconosciute
di lontane preesistenze
nell’infinità
di un convento sconsacrato
dentro di me

cammello troppo vecchio
abbandonato nel deserto
seguo
a passi lenti
con la bocca che mastica sabbia
la pista
che mi porterà
all’ultima
(lontano)
oasi


Il Simurgh nel cielo è uno specchio
che mi riflette in tutti i tempi in tutte
le direzioni nello stesso istante
inutile e vuoto sono uno e tutti
nenie fantasmi carovane di zingari
pensieri di neonati e di trapassati



A un certo punto gli umani cominciano a mostrare strani comportamenti, si spogliano nudi nelle strade, uno si suicida durante una banale conversazione su una partita di calcio gettandosi improvvisamente da un balcone del decimo piano, sento per qualche secondo che mentre precipita continua tranquillo il suo discorso, due di loro, Scatton e Ferrer, uccidono una studentessa senza nessun motivo, i telegiornali, stanchi dei suicidi con il tubo nello scappamento del gas dell’auto, dei sassi tirati dai ponti sulle auto in corsa, delle madri che sgozzano i figli, danno la notizia di uomini che squartano cani a morsi, Silvio Berlusconi costretto ad espatriare cambia cittadinanza ma viene eletto Presidente degli USA, infine un papiro egiziano svela che migliaia di anni fa il genere umano adottò la rivoluzione surrealista e la vita attuale sarebbe il frutto di un’evoluzione millenaria di quella scelta, anche la lattina di Cocacola su questo tavolo è surreale, tutto è surreale solo Dio è reale, tutto l’universo è noumeno, un atomo del mio corpo è un atomo del corpo dell’universo che è un atomo del corpo di Dio che non ha né corpo né non corpo, come un atomo del mio corpo non conosce il mio corpo io non posso conoscere Dio o me stesso, non esiste nessuna distinzione tra soggetto e oggetto, fra me e gli altri, tra uno e tutto, tra essere e non essere, tra esterno e interno, la dimostrazione di Dio è la mia erezione, buio della luce, luce del buio, una grande risata ci insegue, Bunuel in sogno mi disse Aggiungi riprese dei quattro elementi empedoclei
Riprese del fuoco
Riprese dell’aria (cieli di albe, tramonti … )
Riprese della terra (porzioni di spazi terrestri casuali, oggetti inquadrati in primo piano insistentemente…)
Riprese dell’acqua (fiumi, mare, pioggia, pozzanghere, acqua che scorre nelle cunette, nel buco del lavandino, nei vetri di grandi vetrate…)
Riprese di umani
Riprese di cose in movimento
Riprese di cose precarie e transeunti (peli, stracci in strada, pezzi di cartacce, filamenti, polvere, un dialogo qualsiasi di un giorno qualsiasi tra due persone casuali…)
Riprese di vecchie foto e di clessidre
Tutto passa e non resta, tutto resta e non passa
Immagini di animali, di orologi, di specchi, di ombre, di vetrine e riflessi, di respiri, di nudi, ripetizioni salmodiate di numeri (recita di numeri), ripetizioni di princìpi (esempio recite del principio di non contraddizione, di identità…)
Il silenzio di Dio ci inghiotte. Noi inghiottiamo Dio col suo silenzio. E scaracchiamo a terra

1

7 luglio 2000 Scopello faraglioni ore 9.40

Due bimbi alla mia sinistra, ombra della mano su questo inchiostro, i pori i peli della, solchi alle giunture, cuore che batte, pelle tesa, il mare ha voci ronzanti, sudato ciiv ciip un passero vociare di bagnanti, sposto gli occhi nelle orbite, il Mediterraneo enorme acqua sinuosa fianchi di femmina, una donna costume bianco giovane forte corpo, energia placida di cella di convento, le mie spalle abbracciate dal caldo, il mento pizzo peli sul braccio sinistro, caldo un serpente sono steso sul ciglio del mare su un muretto di percezioni, alla mia sinistra la tonnara dei pescatori di Scopello, persiane verdi aperte, porte socchiuse a vanidduzzu, tende di seta veli annoiati, il passero ora in una fessura sotto il cornicione punto tremulo nel buio, canoa gialla, il sole mi cuoce nel suo forno, passare oltre la porta della realtà, non riesco a scrivere, lasciare i pensieri liberi disordinati fatto il bagno nuotato fino al veliero scoglio forma dello, sale in bocca, acqua narici, una coppia lui cappellino caffelatte con visiera, lei bionda con treccinemaglietta canticchia Lucio Battisti, voce strascicata In un mondo che prigioniero è…, gialli fiori dell’albero di mimosa caduti su questi gradini, giallo della luce morente in un lamento di felicità che si allontana, Van Gogh sanguina giallo, labirinto di crepe in questo muro, scalini seduto io sugli, formiche avanzano come soldati in rassegna in un campo di battaglia dopo il combattimento, si muovono in una fissità atemporale, le teste rosse, un ciuffo d’erba esce a stella dal muro nell’ombra con steli violacei e ondeggia al vento, una crepa sembra un albero genealogico, i capillari polmonari, ramificazioni esoteriche svelate da un aruspice, rabdomanti in tuniche mistiche con ricami d’oro e d’argento convocati a sinodo per dirimere i segni del destino nella crepa, re assiso al trono trasportato a braccia fin qui aspetta responso, si sacrifica una vergine in bianca veste di seta trasparente, energumeni la legano a un palo, danze a ritmo di sistri egizi e tamburi, epilettici vengono fatti cadere in trance schiuma bavosa alla bocca raccolta in vassoi d’oro con effigi di gesta d’Ulisse e interpretata lungamente da sacerdoti con lunghe barbe la vergine affidata al mare per placarne l’ira allontanata in zattera nuda in mare aperto pesce verrà la sverginerà e la divorerà per tregua non definitiva abbisognando sempre altre vergini mensili simultaneamente falange di adolescenti sul bagnasciuga nel rito collettivo esorcistico e propiziatorio si sparano seghe sborrate all’unisono, antichi rattoppi di calce, pace di ombre assorte, alti gabbiani sugli scogli sorvegliano il mare, gridano, il suono si perde nel fermento delle onde, del tempo, della memoria, delle immagini, del blu, della luce accecante del meriggio, degli orologi per sempre fermi, chiudo le palpebre per cercare di vedere qualcosa attraverso le ciglia, luminosità tenebrosa, questo albero è vicino a un’ancora erosa, ossidata scultura di Giacometti, l’albero ha la saggezza, sua apparente fissità, radici per una minima linfa, tronco immobile rami sottili foglie ancora verdi, luce vento brezza marina, contatto consapevole con l’energia secolare del marfaraggio, entro nella terra sotto la base oscura del tronco, aridità, respiro, fermo, sono io l’albero, mi giro, sonnolento cortile, ancora seduto sui gradini di marmo sbilenchi avvallati lisci fra ciuffi d’erba foglie secche, formiche, le spalle appoggiate al muro, gli occhi all’altezza del piano del cortile, ciottoli, gramigna che nella sommità si apre come una mano di filamenti biondi, estate, una parte del cortile è illuminata dal sole, in fondo ci sono gerani affondati nella calura ubriaca, l’altra è adagiata nel refrigerio dell’ombra, silenzio assorto, un filo di ferro fissato tra due muri, semplice presenza stupefatta, una grata chiude un altro cortiletto sovrastato da un albero obliquo possente che dorme con i suoi rami secchi, qualche superstite ciuffo verde, più in alto ancora un’enorme pendenza di sommità rocciose, palmenane fichidindia stoppie riarse nel calcinante momento che non passa, risacca del mare, a fianco della grata ossidata un’altra crepa nel muro si staglia come un fulmine pietrificato, un rabbercio con bianca calce, ci sono tutti i segni del tempo in questa smemorata inconsistenza, api bevono alla bocca di un rubinetto a muro che sgocciola, un fico proietta la sua ombra a terra, il mare si rafforza, rumina i pensieri del mio es, i fichi non sono maturi polpa bianca a puntini rossi dolce, in campagna da mio nonno trenta anni fa, ricordo riaffiorato dai fondali dell’oblio, salii su un albero, frutto colto, assaporato, gesto della mano che prende, foglia ruvida che mi accarezza il dorso della, felice solitudine, strana naturalezza di ricordi dissepolti, e da bambino avevo a volte déjà vu anche premonitori, sicuro che quella cosa l’avrei in avvenire ricordata, c’era un’aura intorno, vedevo un portone, la rugosità vissuta di una superficie e restavo incantato, un viso di un passante che si allontanava nella strada un colpo di battente a un portone avevano risonanze ancestrali, proiezioni teologiche, saldature agostiniane di passatofuturo, avevo la fissazione per il tempo che passa, presentimento d’eternità perdute e ritrovate, presenza della morte, entrare nella porta dell’attimo, nell’essere, flusso di energia di un uno infinito, sognare un’aquila o essere sognato da un’aquila, annegare nell’assurdo, e il naufragar m’è dolce in questo mare, una farfalla bianca si posa sull’erba, bruco metamorfosi del, cerco la mia metamorfosi fissando la parvenza della realtà, l’uno oltre il pluralismo e l’apparente dualità, una lucertola sale sul muro si ferma in una posizione d’attesa attenzione e vista, lampada spenta tre metri sopra il mio corpo seduto, lampione antico di campagna sporco di polvere e cacchine di mosche piatto concavo di lamiera smaltato bianco con bordino esterno nero, anche negli angoli delle stradine notturne delle budella di Alcamo ancora sopravvivono

giovedì 16 ottobre 2008

poesie






Carollo Baldassare

Poesie
immagine di Baldo Carollo





1

Mi aggiro in una Alcamo non mia
volo all’interno di monti trapasso i muri
si deformano i quartieri
constato in piazza Ciullo un vecchio porto di mare mai esistito
e periferie le mie mani hanno preso fuoco
processioni di tristi bambini oranti in cimiteri
il sole rosso nella notte (ingialliti tasti d’organi cattedrali di meriggi ceri accesi)
come un falò scoppiato in mille sillabe
di fuoco attorno ci volano ubriachi
corvi reali alcuni muoiono bruciati
scorrono fiumi dentro di me
migrano uccelli dentro di me
solitudine di cortili mai visti

la stanza ammonticchia aliti
concili di invisibili presenze

fiori blu e rossi mi sono spuntati
negli occhi e nelle mie rughe
cresce un enorme narciso
ma le mani sono ancora accese
di fuochi fatui piene d’amore a tentoni

la stanza è inondata di interstizi

le cose si fanno allucinazioni

esploro contrade sconosciute
di lontane preesistenze
in un convento sconsacrato - dentro di me
infinità di anditi
passaggi
androni
sale di ex voto
vestiti da sposa impolverati
salme appese

nenie aggrumate a respiri

scale finestrine strapiombi

pietre di muri pensano

santi mi fissano muti

silenzi dentro gocce

carillon demoniaci
fatti da maari

seduti a terra
ai piedi dei muri
vecchi laceri
recitano sutra
sussurrano
e a ondate
gridano
mantra di risate
implorano
bestemmiano

salmodiano canzoni d’amore e filastrocche

ricordo così una precedente esistenza
fui un cammello e alla fine troppo vecchio
mi abbandonarono nel deserto
allora a passi lenti
con la bocca che digrignava sabbia
seguii svogliato
la pista
verso l’ultima
lontana
oasi
dove nacqui

tamburi le mie quattro zampe
i miei respiri furono sciamani

buio
svampito
stramazza

sabbia di clessidra
tramutò
nostalgia









2


Il mare ha inondato piazza Bagolino
dentro il Bar Tiffany andirivieni dell’onda
siedono bevono è inverno sono immerso fra detriti
non sento freddo una piccola folla
attende l’annottare un pipistrello svolazza felici
come in un giorno di festa della Madonna
o di terremoto allegria di sfollati
vedo i volti di ognuno ma non li riconosco
familiari deformi nostalgia di mostri
abbraccio esodi di riflessi pende un lampadario
nell’ultima navigazione
il tempo muta in pietra
naufrago
sopra una zattera d’ombre
tenute
da
funi
di
parole
senza
senso
e
senza
memoria
ho
occhi
di
medusa




3



Il tagliacarte d’acciaio sul vetro del tavolo
nella sua forma impassibile
trascorre nel nulla di milioni
di anni si sgretola saggio
inerte passivo nelle configurazioni
atomiche impermanenti la storia
non lo tocca la casa non gli appartiene
né esso appartiene a nulla non sente
il chiacchiericcio degli umani nelle
stanze nulla nuoce all’estenuazione
della scomparsa sopra una tale congiura
del silenzio vola alla velocità della luce
con le galassie che si allontanano da tutto
e voliamo forse insieme ma non so dove
trascinati dalla corrente povero perno
di cosmo sibila un attimo di tremore
nel buio dell’universo non rimanendo
altro che una triste inutile eroica risata
in faccia a Dio e non lo toccano le morti
il tagliacarte d’acciaio posato sul tavolo
di vetro al passare del tempo come un detrito
appassisce
e
ride