mercoledì 28 gennaio 2009

Fiala di siero n°136

L'ultima cena 136.

Sono seduto a un tavolo. Il tavolo è così lungo che non riesco a vedere né a udire la persona che è seduta all’altro capo del tavolo. Ho subito pensato, chissà perché, che lo scopo è quello di mangiare e credo tutt’ora che prima o poi arriverà il primo piatto. Non so chi è il mio commensale all’altro capo del tavolo, o se piuttosto non sia io il commensale invitato. Non potrei stabilirlo perché non mi ricordo in quale casa sono. A rigore non potrei dire neanche che sia un pranzo. Potrebbe essere un colloquio. Sembra sicuro che all’estremità del tavolo debba esserci qualcuno. Ma è poi sicuro davvero? Chi può garantirlo? E se non c’è nessuno? Un’idea balzana per un attimo mi seduce: che sia un’ultima cena? E se fosse solo una mia predisposizione d’animo questa certezza di stare insieme a qualcuno? Potrebbe trattarsi di un ricevimento per un’udienza. Forse sono dentro a un carcere? Sì ma perché non debbo vedere con chi parlo? Forse la natura della persona con la quale devo parlare è troppo superiore alla mia? E non mi è dato di vederla? Di contemplarla? Possibile si possa trattare di un colloquio con il mio angelo custode? Con il mio giudice? Oppure con San Pietro davanti alle porte del cielo? Può essere che sia addirittura Dio in persona? Questa ultima conclusione mi sembra molto improbabile e narcisistica: perché Dio in persona dovrebbe parlare con me? Con me: un insignificante essere senza fede e pieno di peccati, di difetti! E poi chi dice che Dio esiste? Potrebbe essere Satana? O un suo lontano emissario? Ma anche Satana forse non esiste affatto. Sì, il bene e il male, va bene, ma perché pensare al Bene o al Male? Potrebbe darsi che il mio interlocutore non faccia parte della cultura umana, o, anche facendone parte, può essere che per lui le espressioni bene e male siano del tutto prive di significato. Le categorie potrebbero essere giusto e ingiusto, oppure bello e brutto, o alto e basso, o maschio e femmina, o pari e dispari, o buio e luminoso, o sostanza e accidente, o necessario e contingente, assoluto e relativo, o uno e due, finito e infinito, o qualsiasi altra cosa non pensabile dalla mente umana. Un extraterrestre? Potrebbe anche trattarsi di una cosa sola, di un’entità che non ha distinzione perché tutto ingloba. O con la distinzione ma dentro una unità. Può darsi infatti che tutti gli universi facciano parte di un solo organismo. Tornando alla stanza e al tavolo, non riesco nemmeno a stabilire se siamo di giorno o di notte, di mattina o di pomeriggio. Infatti sul lungo tavolo di legno c’è una luce diffusa un po’ cerulea, tenue; tale da poter essere sia una luce dell’alba, sia una luce del crepuscolo, sia una luce lunare, oppure una luce tisica di una di quelle grigie giornate invernali. Anche una luce al neon bluastro di una camera mortuaria. E, al contrario, potrebbe persino essere una luce estiva di solleone; solo che il tavolo potrebbe non essere vicino direttamente a un’apertura esterna. Sì, è vero, vedo una grande finestra con vetrata: ma chi mi dice che non dia in un’altra stanza a sua volta con un’altra finestra? Non riesco a vedere fuori da qui e una penombra diafana mi avvolge in tutte le direzioni. Comunque ammesso che sia in compagnia di qualcuno – che non faccia cioè parte della mia suggestione – : cosa dovrebbe dirmi questo qualcuno? O cosa dovrei dire io a lui? Chi ha convocato chi e per dire cosa? Meglio stare zitto e aspettare gli eventi. Ma fino a che punto mi conviene questa tattica? Magari sarebbe più semplice alzarmi e andarmene. E se davvero al capo del tavolo ci fosse Dio io che faccio mi alzo e me ne vado voltando le spalle a Dio? Ma poi andare dove? Non può essere invece proprio che tutto il mio cammino sia stato volto a questo tavolo, a questo incontro? Che tutta la mia esistenza e perfino tutto il karma delle mie esistenze presenti passate e future non preveda questo? E se mi alzo non lo torni a prevedere magari fra centinaia e centinaia di esistenze? Infatti ho una sensazione fortissima di déjà vu. Ecco, rifletto, il perché del mio dèjà vu: se mi alzo sono sicuro che tornerò prima o poi – e forse non è la prima volta che lo vivo – a vivere questo istante esattamente come in questo istante. Mi viene anzi il sospetto che non possa materialmente alzarmi. Meglio non provare. Devo comunque valutare bene prima di alzarmi o restare, non vorrei fare una scelta sconclusionata. Ma poi perché andare via? Io non ricordo perché sono venuto qui e dopotutto questa potrebbe essere la mia casa. Non ricordo nemmeno se sono venuto qui o se sono sempre stato qui, fermo dall’eternità. Non saprei dove andare e se sono arrivato qui vuol dire che questo posto deve rivelarmi qualcosa. E’ un tavolo di legno molto vecchio, pieno di graffi e liso, con qualche buco che attesta presenza di termiti. E’ evidentemente un tavolo secolare e in questo tavolo molti avranno appoggiato le mani, i gomiti, mangiato, bevuto. Mi giro intorno: in tutta la casa aleggia come una nebbiolina e non vedo altra mobilia, eccezion fatta per un lungo orologio a pendolo a muro il cui quadrante sembra emergere dalla nebbia di una stazione ferroviaria. E’ un orologio vetusto. Il pendolo continua ad oscillare lento e solenne ma una delle grandi lancette è divelta e caduta alla base dello schermo di vetro bombato, e evidentemente non è mai stata aggiustata. E’ la lancetta delle ore e quindi è impossibile stabilire l’ora. Le grandi vetrate delle finestre ora sono appannate e rigate di pioggia. Tintinnano. Sembrerebbe di poter concludere che quindi si affaccino fuori e che fuori piove, ma non mi sento di poter stabilire con certezza nemmeno questo. Infatti ho detto che nella stanza aleggia una nebbia e dal mio posto non posso stabilire se le gocce sono interne o esterne al vetro. In ogni caso considero sconveniente alzarmi in questo momento per andare a verificare. Il tintinnio dei vetri inoltre potrebbe essere dato da una qualche vibrazione sonora anche interna. La grande vetrata potrebbe dare in un’altra grande stanza o in un chiostro. Anche se è alquanto remoto che qualcuno costruisca una grande vetrata che dia semplicemente in un’altra stanza, pure la cosa non è esclusa del tutto. Potrebbe infatti anche darsi che la casa si sia espansa successivamente con altre superfetazioni e altre stanze e che la grande vetrata sia stata lasciata dov’era. Tutto è importante considerare e niente escludere a priori. La presenza della nebbia nella grande stanza potrebbe essere dovuta all’umidità, all’escursione termica, al vapore di qualche cucina non lontana. So solo di trovarmi in questa casa, seduto in un lungo tavolo di una stanza avvolta dalla nebbia. Con un brivido penso alla possibilità che io sia in realtà morto e che mi trovi qui come in un territorio di mezzo in attesa della mia destinazione nell’aldilà. Può essere che la mia destinazione dell’aldilà sia in realtà proprio questa, cioè lo stare seduto a questo tavolo per l’eternità e continuare a pensare all’infinito. Forse dovrei essere io il primo a profferire parola? Magari per vedere se c’è qualcuno nell’altro capo del tavolo. Veramente un eventuale silenzio di risposta non dimostrerebbe che non ci sia nessuno ma solo che se anche c’è qualcuno questo qualcuno non mi risponde. Magari ritenendo inopportuna la mia impazienza e la mia insolenza. Mi conviene cercare di resistere quanto più possibile ed aspettare in silenzio. Una sentenza del tao dice: “Chi sa non parla, chi parla non sa”. Così resto in silenzio, anche se il mio silenzio non significa che io sappia qualcosa, perché, come ho detto, non so assolutamente nulla. Nondimeno aspetto e valuto. Certo ogni soluzione è rischiosa e anche non parlare e non fare nulla, benché sia la meno rischiosa. Infatti può essere che dall’altra parte chi – sempre che ci sia – è seduto aspetti una mia parola e il fatto che io resti inane può danneggiare la mia situazione. Può essere che io abbia una grave colpa e che su di me si stia per pronunciare una condanna o un’assoluzione. Dunque devo difendermi o potrei essere condannato subito con l’aggravante dell’accidia o dell’ignavia del mio silenzio. Ma difendermi da cosa? E difendermi non equivale ad ammettere di essere accusato di una colpa? La difesa, comunque, non avendo elementi di nessun genere, è la cosa più giusta da fare; e la migliore difesa implica il non fare la prima mossa. Sì, devo solo difendermi: aspettare e rispondere con contromosse. Infatti attaccare senza conoscere l’avversario, la sua forza, equivarrebbe a una mossa avventata che non potrebbe che portare a una più probabile sconfitta. Inizio a ispezionare il tavolo. La sua superficie è vetusta, come dicevo, piena di graffi. Vedo che ci sono dei segni che sembrano barrette parallele, come quando nei carceri duri si segnano i giorni per orientarsi scavando con una punta solchi nel muro buio. Quindi credo che anche altri prima di me siano passati da questo tavolo. E abbiano aspettato – come me senza parlare né alzarsi – giorni e forse mesi. Infatti le barrette sono molte, sempre che il loro significato sia questo. Può darsi invece che siano solo segni casuali di un tavolo casualmente segnato dal tempo. Di quale colpa mi si può accusare? Certo vivendo ho commesso tanti errori. Ma gli errori sono colpe? E se anche fossero colpa la colpa è evitabile? Chi stabilisce una colpa? Gli errori li stabiliamo noi stessi e noi stessi le colpe in base al nostro giudizio? O devo pensare che ci sia un giudizio superiore e oggettivo? Un giudice supremo? Vivendo ho commesso gravi errori, sono stato vigliacco, ipocrita, recidivo, infedele, poco umano, poco generoso, egoista, pettegolo. Anche da me so giudicarmi e in base ai miei stessi valori. Certo ho forse combinato anche qualcosa di buono, credo di essere stato sensibile, riflessivo, profondo ma quasi mai ho messo in pratica le mie intuizioni e i miei convincimenti. Come un albero forte che però non ha dato frutti. Può darsi che il mio giudizio sia troppo duro e che abbia vissuto invece una vita normale come quella di tutti gli altri con i suoi alti e i suoi bassi. E può darsi che i frutti migliori di quest’albero della vita siano proprio i dubbi, le contraddizioni. Ma poi perché parlo al passato come se fossi morto e davvero dovessi rendere conto a qualcuno del bilancio della mia vita? Una parte di me pensa che ogni giorno avrei dovuto immaginare di essere a questo punto, ogni giorno della mia vita, e così agire con la dovuta fermezza. Ora invece non so proprio cosa fare. Ogni giorno in cui pensavo di cambiare vita e di essere più profondo e autentico rimandavo sempre. Ora mi accorgo di aver rimandato fino a quando non c’è stato più niente da fare; di aver sciupato la mia vita nel tran tran quotidiano delle non scelte. E mi ritrovo come sempre a tentare di scacciare anche l’evidenza di questa situazione. Spero infatti ancora di potermi svegliare e scoprire di aver fatto un incubo. Mi do un pizzicotto fortissimo nell’interno della coscia sinistra, sotto il tavolo. Non mi sveglio. Riesco non di meno a mantenermi freddo e a resistere a non parlare e a non alzarmi. Comunque non sono spirito altrimenti il pizzicotto non mi avrebbe fatto male. Ho ancora un corpo? Oppure dopo morti si mantiene la capacità di rapportarsi a un corpo e di provare dolore o piacere come se il corpo ci fosse ancora? Ho sentito dire di mutilati di guerra che provano ancora dolore nell’arto che non hanno più. Ma qual è la differenza tra morto e vivo? E tra sveglio e sognante? Mi chiedo poi se il giudizio e la colpa debbano per forza rapportarsi al bene e al male fatto durante la vita. E se non ci fosse affatto alcun giudizio? E se noi fossimo tarati al bene e al male solo per una nostra forma mentis voluta dal potere dominante per irreggimentare le coscienze? Comunque mi torna sempre in testa il tavolo come associato al cibo. E – come ho detto in precedenza – se fosse davvero il tavolo dell’ultima cena? E io fossi Giuda in persona tornato al tavolo per dirimere con Gesù Cristo la questione se fui ab eterno predestinato a tradirlo? Se io potei avere scelta? Se in realtà io non fossi un prescelto, un predestinato, da sacrificare per il compito più ingrato, arduo e nobile come il tradimento di Cristo? Mi chiedo se si può scegliere di peccare o se si è predestinati a peccare; se Giuda fu predestinato prima di nascere o fu scelto per i suoi meriti al grande compito di tradire. Ma poi se esiste la verità eterna dall’eternità ciò non implica che la più grande missione di verità sia tradire la verità? Sia cioè minare questo dittatoriale immobilismo chiamato eternità? Satana dunque fu un cercatore di verità? Il tradimento inoltre non verifica proprio che c’è una verità? Se la verità non si tradisce come può essere appurata? Può esistere la verità senza la necessità della falsità? Si può arrivare alla verità, alla sua consapevolezza, senza passare dalla consapevolezza della falsità? Come potrebbe distinguersi? Come la verità potrebbe essere il fine se non fossimo dentro la falsità? Quindi potrebbe essere ancora l’ultima cena tra me e Cristo? Tra me e Dio? Dopotutto non ci si siede a un tavolo per mangiare? Ma può darsi che si tratti di una cena galante e magari tutti questi ansiosi problemi sono solo tormenti senza senso di un ipocondriaco. Magari adesso si materializza una donna in serici veli che si esibisce in una sensuale danza del ventre, chissà. Mi godo questa nebbia e quest’atmosfera sospesa. Fuori forse imperversa un temporale. Ogni tanto le vetrate si illuminano di bluastri bagliori. Gocce cadono dalle alte soffitte della stanza e creano una sorta di amplificazione polifonica come dentro a una grotta. Non c’è freddo, anzi sembra che un certo tepore si diffonda da qualche luogo. Non è improbabile che un camino stia ospitando un fuoco. L’orologio continua a essere rotto e nebbioso e io aspetto, aspetto senza stancarmi. Sono ormai passati giorni e notti. Non riesco a capire da quanto stia seduto in questo tavolo ad aspettare. Forse un minuto, forse un anno, forse la vita intera, forse l’eternità. E’ possibile che chi doveva arrivare sia arrivato e se ne sia andato senza che io l’abbia scorto. E’ vero non ho sentito alcun rumore rilevante, ma questo non prova niente. Il tavolo è talmente lungo che non posso inferire quanto sia lunga la camera e ad una certa distanza non sentirei certamente alcun rumore di passi. E se fossi sottoterra? Dentro la bara? E se il legno è la copertura interna della bara e il resto semplicemente lo stia immaginando? Ma che pensieri lugubri! Preferisco pensare altro. Ora mi metto a ripassare tutti i baci che ho dato in vita mia. Però devo considerare le ipotesi meno vantaggiose per me, così che non mi trovi impreparato a doverle affrontare. Ma ecco che sento finalmente un rumore di passi. Un’ombra si staglia dietro la vetrata e si dirige verso un’apertura di fronte a me. Ecco che sento una porta lontana cigolare sui cardini. I passi ora sono dentro la stanza. Si stagliano con una presenza sonora molto più marcata. Dall’ombra informe si definisce una sagoma dal viso inespressivo che si ferma proprio davanti a me restando in piedi e fissandomi. Mi rendo conto che quella sagoma sono io stesso.