lunedì 22 agosto 2011
Poesie
142
Nel preciso istante in cui il cuore di Ludovico Corrao emise l’ultimo battito, un orologio a pendolo della Sala Gialla del Palazzo dei Normanni si fermò; e il vecchio commesso ebbe un tremito di terrore per la vacuità smisurata del silenzio, la fissità dei soprammobili secolari, il tintinnare delle grandi vetrate.
Nel preciso istante in cui il coltello recise la carotide in una crepa del cretto di Gibellina spuntò un filo d’erba; nel cielo profondo cadde una stella, oppure nacque, non ricordo.
In quel preciso istante nella canicola calcinante dell’agosto le cicale di Gibellina cantarono più forte la loro prosodia binaria e in una casa anonima della Grecia l’armadio più antico scricchiolò per l’ultima volta nello spasimo di un estremo ricordo di boschi lontani, di legni di navi, di sentori di muschio, di nidi, di sentieri segreti.
Nel preciso istante in cui esalò l’ultimo respiro una folata di vento lambì a lungo la Torre dei Colombi del castello diroccato di Calatubo rimbombando di echi nella solitudine vuota delle sue pareti circolari e i colombi scossero la testa e smisero il loro tubare gutturale insistito.
In quel preciso istante un anziano contadino, con un fazzoletto a nodini sulla testa, zappando intonò un canto d’amore d’altri tempi in un’ottava strascicata che si propalò a intermittenza nelle lontane contrade della campagna; un fuoco crepitò nella valle, una foglia si accartocciò e cadde dal ramo, un rivo continuò a scivolare tra due pietre, un cane annusò una pista di una lontana esistenza precedente e abbaiò di nostalgia, un gabbiano ad ali spiegate sfruttando le correnti ascensionali sentì la brezza salata del mare distante, ancora invisibile.
Nel preciso istante in cui Ludovico Corrao spirò riaffiorarono le orme di Empedocle nei passi dell’Etna sotto al cratere.
In quel preciso istante un gelsomino selvatico profumò per le narici di nessuno, perché non c’era nessuno a sentirlo, nell’acciottolato affondato nelle stoppie riarse di un patio di una casa abbandonata sul monte Bonifato, nella frescura molle dell’ombra di un muro.
Quando morì accadde che un uomo a Buenos Aires, nel quartiere “Palermo”, che non aveva mai sentito parlare di Ludovico Corrao in tutta la sua vita, mentre camminava in strada soprappensiero seguendo il triste ritmo dei tacchi e delle suole di cuoio delle sue scarpe sul marciapiede e stava per bussare a un campanello fu raggiunto da un’immotivata raffica di felicità che gli travolse il cuore e dovette fermarsi e appoggiarsi al portone e respirare lentamente e non seppe mai che era il richiamo del sangue della lontana terra degli avi di Sicilia, un aggrumarsi di lotte contadine e di canti, di pane spezzato, di comizi di piazze, di speranze e di “contradanze” e tamburelli sotto uliveti oltre l’oceano in tempi andati.
Nel preciso istante in cui morì tutte le porte del Baglio Di Stefano si spalancarono da sole.
Quando morì qualcuno si accorse che anche il proprio respiro era diventato più lento e profondo e cominciò a pensare al suo respiro, a ogni inspirazione e ad ogni espirazione, ed ebbe l’intenzione di contare i respiri senza sosta fino al risveglio, fino all’illuminazione.
Nel preciso istante in cui spirò Ludovico Corrao tutti fummo Ludovico Corrao anche se fu solo un attimo.
Avvennero strane cose quando morì Ludovico Corrao, in quel preciso momento: una frana imprigionò il vento di scirocco in una grotta e continua a girare e girare lì dentro senza sosta senza poter più uscire; una megattera in amore cantò nelle profondità del mare l’ultima volta e si arenò come a un richiamo del suo innamorato nell’eutanasia di una spiaggia di Aci Trezza; Cola Pisci per salutarlo prima del suo viaggio tra le stelle riemerse dalle profondità della Sicilia lasciando la colonna senza sostegno e per un istante – l’istante singolo e preciso in cui morì – rischiammo di sprofondare.
Nel preciso istante in cui morì Ludovico Corrao accadde tutto, o forse continuò ad accadere tutto, o forse non accadde nulla veramente, perché nulla veramente accade nel mondo.
Quando morì Ludovico Corrao regalai uno zufolo intagliato nella canna di un canneto di Gibellina a mia figlia, un marranzano all’altra figlia, e mi misi a cantare e a lottare, come lui ci aveva insegnato.
Baldo Carollo
Ludovico Corrao, un intellettuale disorganico
Ha una triste onestà il bell’articolo polemico di Francesco Merlo di domenica dal titolo “Ma l’utopia di Gibellina è un disastro spettrale”: quella di confessarne il prius, il litigio personale con Ludovico Corrao.
Triste perché in genere la morte – che è eterna – lava il risentimento personale, le nostre fatuità.
Invece Merlo di fronte a un corpo di un vecchietto di 84 anni appena martoriato dalle coltellate di un assassino che si è scatenato con efferatezza inaudita sente il bisogno di pregare per il carnefice (anche noi lo sentiamo e lo raccogliamo) ma non per la vittima; alla vittima a terra invece sente il bisogno di infliggere un surplus di coltellate.
Passi pure, poco importa, l’opinione tutta negativa sulla ricostruzione di Gibellina, sulle opere d’arte dei maestri del novecento Burri, Consagra, Pomodoro, Venezia, Samonà, Cascella, Mendini, Melotti, Purini etc, che vollero, quasi sempre gratuitamente, lasciare un segno d’amore e di speranza, quello delicato della bellezza, a una popolazione anch’essa assassinata (come Corrao da Saiful Islam) dal terremoto del sessantotto.
Disinvoltamente Merlo considera quelle opere, di cui parla il mondo dell’arte, “cacche d’artista per mosche fameliche”. Boh.
Ognuno ha il suo gusto artistico. De gustibus non disputandum.
Di cattivo gusto senz’altro è invece la diffamazione dell’uomo appena assassinato.
Surrettiziamente si insinua l’infamia (pedofilia?) parlando del pulviscolo sociale di un nuovo sottoproletariato quello dei “badanti sessuali” (!), e dicendo falsamente che Saiful Islam lavorasse per Corrao dall’età di dodici anni (in realtà solo da due anni); si inventa che fosse considerato un “bastone da passeggio” come un trofeo esotico di un dandy; altre “brillanti” amenità dello stesso tenore.
Chi sa le cose conosce la verità: Corrao era ridotto talmente male per gli acciacchi e le malattie da avere sempre bisogno di un badante per deambulare, per lavarsi, vestirsi, svestirsi, mangiare, fare le pulizie, per le medicine e l’assistenza nei continui ricoveri. Era pelle e ossa. Chiedete se non è vero.
Ma quanto più deperiva tanto più diveniva magnetico, raggiava essenza, conquistava.
Che si possa avere un’idea tutta negativa di Corrao, della ricostruzione di Gibellina, delle Orestiadi, del Museo delle trame mediterranee (geniale museo della fratellanza mediterranea) non stupisce.
Molti coprofili si nutrono, devo convenire, delle cacche d’artista; e i coprofili più raffinati se ne nutrono in un modo tutto particolare: attaccandole. Ma le cacche restano pur sempre il primo motore immobile. Molti si sono nutriti, si nutrono e si nutriranno della polemica su Gibellina, e Corrao ne ha sempre vantaggio: è in fondo in un modo o nell’altro un tributo a quello che Sgarbi, forse con troppa enfasi, ha definito “l’ultimo principe del rinascimento”.
Chi sa le cose sono i gibellinesi – chi se non loro? – che hanno voluto Corrao come sindaco e padre rifondatore della loro rinascita per 25 anni; che al funerale hanno accompagnato il feretro in spalla piangendo (la città intera).
Merlo liquida poi la stagione dell’Unione siciliana cristiano sociali che vide in Corrao e Milazzo i protagonisti assoluti di un rivolgimento sociale e federale che portò la Dc all’opposizione in Sicilia, nel suo feudo, come “…l’intrallazzo del milazzismo che giustamente per Sciascia fu un orrore di immoralità. Pensate: il peggio della Dc di allora insieme con il Msi e il Pci. Veri fascisti mussoliniani e veri comunisti stalinisti…”.
Questo giudizio mi pare, perdonate, ingiusto.
Eravamo nel 1958 la Sicilia era nella morsa del feudo, dell’immobilismo, dello strapotere della mafia e del blocco coriaceo della conservazione, per non dire della più retriva reazione. La riforma agraria di Gullo era stata fatta abortire, i monopoli del nord costringevano la Sicilia nella sudditanza e nell’indigenza del sottosviluppo, gli echi delle mitragliatrici della prima strage di Stato, quella di Portella della Ginestra, si erano appena sopiti. Corrao riuscì, nel nome degli interessi più alti della Sicilia e dell’applicazione del suo Statuto autonomistico, a coagulare attorno a sé e a Silvio Milazzo le forze politiche – o meglio gli spezzoni di esse, perché i partiti furono spaccati come da un sisma (ancora un terremoto) – che volevano uscire dall’ascarismo più prono per avviare un’impetuosa stagione di riforme.
Il milazzismo fu una stagione complessa e controversa che durò in tutto meno di due anni e che finì ingloriosamente in un tranello: una brutta corruzione o meglio una ancor più brutta istigazione alla corruzione. Tale fu il Caso Corrao-Santalco. Ma questi due anni determinarono e anticiparono profeticamente molte cose: l’abolizione del dogma dell’unità dei cattolici in un solo partito, l’autonomismo e il federalismo al centro della politica, il superamento degli steccati ideologici tra i partiti. La Confindustria siciliana guidata da La Cavera strappò con quella nazionale, nacque il sogno dello sviluppo industriale. Venne in Sicilia Mattei ed elaborò il progetto del metanodotto che doveva collegare l’Algeria alla Sicilia…
Corrao volò a Mosca ricevuto con gli onori di un capo di stato da Krusciov: fu il preambolo dell’incontro tra il leader sovietico e Papa Giovanni XXIII, un passo rilevante nel disgelo della guerra fredda e nella destalinizzazione.
Furono meno di due anni che però generarono e continuano a generare innumerevoli tomi di storiografia.
Sì, per Sciascia quell’operazione fu sbagliata, ma non fu “un orrore di immoralità”. Se l’avesse giudicato un orrore di immoralità non sarebbe di certo stato a Gibellina accanto a Corrao che gli conferì la cittadinanza onoraria. In quell’occasione Sciascia fece un discorso memorabile e paragonò Ludovico Corrao all’erba che cresce nelle crepe del cretto di Gibellina. Disse che quell’erba non era “erbaccia” ma il simbolo commovente della vita che risorge sempre e comunque. Disse di continuare per quella strada.
Corrao fu un “intellettuale disorganico”, un cristiano inviso alla Dc e alla chiesa che scomunicò ufficialmente i Cristiano-sociali e un indipendente di sinistra che non prese mai la tessera di partito. Ma accanto a lui ci furono Carlo Levi, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, tanti altri.
Quanto poi a definire Macaluso e compagni “veri comunisti stalinisti”, beh, anche i bambini sanno che Macaluso, insieme con il Presidente Napolitano, rappresentò nel Pci l’ala più antistalinista, quella liberale, anti ideologica e riformista. E non a caso il presidente Napolitano onorò Ludovico Corrao recentissimamente di una visita allo stesso tempo ufficiale e di affettuosa amicizia, riconoscendone la grandezza.
Ho avuto l’onore di essere amico di Ludovico Corrao e di raccoglierne il percorso umano, politico ed artistico in un libro che rimane come un testamento. Il libro edito da Ernesto Di Lorenzo ha un titolo-manifesto: Il sogno mediterraneo. Nella copertina campeggia un dipinto di Schifano, un pezzo unico che fece esclusivamente per lui.
E’ uscito un anno fa. Chi vuole saperne di più può leggerlo.
Merlo, un giornalista che rispetto e che ammiro, sostiene che a Gibellina l’arte ha finito con l’esaltare la marginalità della popolazione. Ma la funzione dell’arte non è proprio quella di farci sentire marginali di fronte al sublime? La stessa funzione ha in qualche modo la furia del terremoto che ci fa sentire marginali rispetto alla forza, al mistero dell’infinito. E non a caso all’ingresso di Gibellina si legge: Comune edificato in una pausa sismica.
A differenza delle proprie cacche, le cacche d’artista non bisogna sottovalutarle. In genere fanno molta strada. Manzoni le imbottigliò e finirono nei musei; un “orinatoio” di Duchamp divenne ancora più celebre.
Qualcuno nel sessantotto voleva che i gibellinesi si dissolvessero in una diaspora di emigrazioni nel mondo. Ludovico Corrao invece ha lottato per dare loro e a tutti i siciliani non solo le case ma anche la bellezza.
Baldo Carollo
mercoledì 25 maggio 2011
da Poesie - Baldassare Carollo
110
Alcamo-Diramazione
due tristi linee ferrate
più in là di lato
un treno merci
in un binario morto C
ormai fermo da anni R
caseggiati disabitati E
per famiglie di ferrovieri D
architettura fascista E
sembra una quinta R
di un vecchio film E
dimenticata dalla troupe
in opaca campagna
piazzetta deserta
in un muro O
una mano B
ha tracciato la scritta B
ormai scolorita E
Dio c’è D
una mosca i suoi arabeschi I
una ruspa al lavoro R
pochi sperduti operai E
silenziosi
un’insegna
al neon di un
BAR
con il piede C
della erre fulminato O
un orologio esterno di metallo M
odore di stazione B
uguale in ogni ferrovia A
come di catrame bruciato T
freddo T
cielo E
grigio R
un pesce scalare E
rosso e argento
vola
lentamente
nell’acquario
cadono
sulla banchina
rade gocce
di pioggia
colombi tubano
sul tetto corvii
immobili
sui fili elettrici
il barista giacca bianca
con due sbiadite
macchie
di
caffè
sopra il bancone
di metallo
un lampadario di cristalli pende
dai fondali esausti del soffitto
un calendario
alla parete 13 gennaio 2007
la polvere negli interstizi dei mattoni sente
l’eternità vuota panchina di marmo
scrittura a pennarello nero
di qualche studentessa pendolare
passata chissà come
da questo posto fuori mano
F + M = Amore eterno
un cane pastore maremmano bianco gli occhi emaciati
abbandona il suo padrone e il gregge e randagio si allontana senza fretta annusando nell’aria una vecchia pista
di un’esistenza antecedente allora anch’io
mani nelle tasche
giro le spalle
mi scende una lacrima
oscilla la gramigna
a una folata di vento
Alcamo-Diramazione
due tristi linee ferrate
più in là di lato
un treno merci
in un binario morto C
ormai fermo da anni R
caseggiati disabitati E
per famiglie di ferrovieri D
architettura fascista E
sembra una quinta R
di un vecchio film E
dimenticata dalla troupe
in opaca campagna
piazzetta deserta
in un muro O
una mano B
ha tracciato la scritta B
ormai scolorita E
Dio c’è D
una mosca i suoi arabeschi I
una ruspa al lavoro R
pochi sperduti operai E
silenziosi
un’insegna
al neon di un
BAR
con il piede C
della erre fulminato O
un orologio esterno di metallo M
odore di stazione B
uguale in ogni ferrovia A
come di catrame bruciato T
freddo T
cielo E
grigio R
un pesce scalare E
rosso e argento
vola
lentamente
nell’acquario
cadono
sulla banchina
rade gocce
di pioggia
colombi tubano
sul tetto corvii
immobili
sui fili elettrici
il barista giacca bianca
con due sbiadite
macchie
di
caffè
sopra il bancone
di metallo
un lampadario di cristalli pende
dai fondali esausti del soffitto
un calendario
alla parete 13 gennaio 2007
la polvere negli interstizi dei mattoni sente
l’eternità vuota panchina di marmo
scrittura a pennarello nero
di qualche studentessa pendolare
passata chissà come
da questo posto fuori mano
F + M = Amore eterno
un cane pastore maremmano bianco gli occhi emaciati
abbandona il suo padrone e il gregge e randagio si allontana senza fretta annusando nell’aria una vecchia pista
di un’esistenza antecedente allora anch’io
mani nelle tasche
giro le spalle
mi scende una lacrima
oscilla la gramigna
a una folata di vento
mercoledì 20 ottobre 2010
Il Sogno Mediterraneo. Ludovico Corrao. Intervista di Baldo Carollo
Ludovico Corrao, intervistato da Baldo Carollo, ripercorre in questo libro sessant’anni di vita e di storia siciliana, dagli anni Cinquanta in poi: il milazzismo, il caso Franca Viola, la mafia, il terremoto del Belice, la ricostruzione di Gibellina, la Fondazione Orestiadi, l’amicizia e la collaborazione con alcuni dei maggiori artisti ed intellettuali del Novecento, da Leonardo Sciascia a Pietro Consagra, da Carlo Levi a Danilo Dolci, da Mario Schifano ad Alberto Burri.
Il senatore Corrao delinea così il progetto che ha ispirato il suo impegno politico per il rilancio della Sicilia come Isola-oasi al centro del dialogo interculturale tra i popoli del Mediterraneo.
mercoledì 14 ottobre 2009
Fantasma
Fantasma
Pioggia mista a grandine, crepitii amplificati dall’abitacolo, picchiettii sul tetto, sul cofano, sul vetro della Ford Transit. Di tanto in tanto una gragnola come una raffica di mitra. Pace del non tempo di un temporale autunnale.
Il tergicristallo azionato a tutta, con un suono distante di risucchiato gemito, permetteva a malapena la vista di qualche metro di strada allagata.
Non m’inquietai, anzi in queste circostanze mi rilassavo.
Viaggiavo per lavoro tutti i giorni, a quei tempi. Rappresentante di una ditta di vestiti. Facevo il giro dei negozi di abbigliamento delle province di Palermo, Agrigento e Trapani. E in strada ne avevo viste di tutti i colori.
Rallentai sulla bretella che collega l’uscita autostradale di Alcamo-est alla provinciale Alcamo-Alcamo Marina.
Svoltai per Alcamo. I temporali mi erano sempre piaciuti.
Sembrava ieri. Pensai a quella volta che, bambino, mia madre mi sgridò solennemente perché ero rientrato a casa bagnato fradicio dalla testa ai piedi. Uscendo dalla scuola mentre imperversava un temporale con fulmini e boati mi ero incamminato senza meta nelle strade del paese deserto ed ero tornato solo a sera. Non saprei dire cosa avevo fatto per quelle ore: avevo vagato. Adoravo vedere le cose attraverso la pioggia. Ricordo solo che camminavo lentamente in una calma beata mentre mi penetrava una freschezza irresistibile. In quei momenti mi assaliva una specie di tristezza eroica, solitaria, e tutto appariva nella sua verità. Ma non saprei spiegare. Le parole sono inutili se non lo hai mai provato. Quella tristezza mi rendeva partecipe di un segreto inaccessibile, in una landa eterna di libertà malinconica. Mi stupii del tempo passato. Appena un attimo fa era quel bambino e dopo quest’attimo – milioni di attimi identici quindi un solo attimo – ero già qui a compiere il mio giro delle province. Ma chi ero veramente? Che ci facevo al volante?
Focalizzai ancora per un istante l’insegna Alcamo; quella con la scritta Alcamo Marina invece indicava verso destra. Guardando alternativamente dagli specchietti laterali – dal retrovisore interno vedevo una fila di vestiti pendenti nelle grucce allineate a una stecca – notai che non c’era nessuno dietro. Né davanti. Mi cullavano la sinfonia battente della pioggia, lo strascico felpato con singhiozzo ritmico dei tergicristalli, le cascatelle dell’acqua che si alzavano da sotto le gomme, il tintinnare ferroso delle grucce con i vestiti appesi.
Da almeno un’ora non incontravo anima viva. Nessuna macchina. D’altronde con quella burrasca. Solo un po’ prima – un po’ quanto? Avevo perso la dimensione del tempo – avevo intravisto ai margini della strada, in un vigneto digradante, un gregge con il suo pastore. Visione di due secondi: un tipo alto, quasi monumentale, con una lunga barba grigia, le pecore ferme, una verga in mano. Neanche a lui sembrava importare nulla del temporale. Mi fissò al passaggio. Mosè pascola le sue pecore. Pensai anche a un pastorello di terracotta del presepio di mia nonna.
Allungai il braccio destro e presi il pacchetto rosso e bianco con la scritta Marlboro. Associazione diretta con la Ferrari. Sfilai una sigaretta, l’annusai, me la misi in bocca senza accenderla. Gettai di nuovo sul sedile il pacchetto che fece un muto sobbalzo sulla stoffa blu e si riposizionò accanto a una penna Bic nera senza astuccio, a un’agenda con copertina di cuoio sciupato tutta gonfia di pizzini inseriti, all’accendino di metallo a petrolio – che era stato di mio padre –, agli occhiali da sole, al mazzo di chiavi tra le quali spiccava quella verniciata verde della porta della casa sul mare. Vi abitavo solitario da tre anni. Le stanze mute – pensai – mi aspettavano nella loro disumana immobilità. Immaginai, anzi mi sembrò di vedere, i soprammobili, le tende, le maniglie delle porte. Il monotono rumore delle onde sulla battigia. Solitudine.
Sul cruscotto era attaccato un foglio giallo con gli ordini dei negozi. Nome, via, numero, telefono, ordinati in colonne.
Dalle cunette come due fiumi fangosi tracimavano sull’asfalto tingendolo di marrone. Le gocce nell’attimo in cui sbattevano a terra formavano sulla strada allagata miriadi di minuscole conche. Individuai l’accendino, riallungai il braccio, lo presi, feci una pressione col pollice destro sulla rotellina dentata che sfregò la pietrina, scintillò, si generò una fiamma troppo grande, una fumata e un acre odore di petrolio. Accesi la sigaretta. Aspirai avidamente il fumo che per un attimo avevo fatto galleggiare dentro la bocca semiaperta. Lo tenni a lungo nei polmoni, infine con una lunga espirazione lo diressi sopra una mosca che, imprigionata nell’abitacolo, tentava testardamente una vana evasione sbattendo la testa sul vetro. Impossibile varco. Fu sommersa dal fumo, poi cambiò volo uscendo dalla vista. Il suo sibilo si interruppe. Si risentì a tratti, coperto dalle mitragliate della grandine.
Classico temporale di fine ottobre.
Un sole tisico non riusciva proprio a farsi spazio dietro la fitta coltre di nubi.
Pur essendo ancora le 16.00 c’era già un buio notturno.
Non ero ancora giunto al curvone del cimitero vecchio – gli alcamesi lo chiamano “primo cimitero” – che notai una giovane donna proprio sotto l’impazzata del temporale. Sola, camminava con passo di felino. A parte lo stupore, la cosa che mi attrasse di più fu l’avvenenza dell’incedere. Le forme del corpo, sotto un vestito demodé di seta bianca, prorompevano sensuali. L’acqua attaccava la sottile stoffa alle cosce ben tornite, i glutei serici sballottavano a ogni passo, le caviglie erano sicure sui tacchi. Notai il caschetto dei capelli anni Trenta, la borsetta minuscola, le reggicalze in trasparenza. Spensi la sigaretta. Rallentai, l’affiancai, abbassai il finestrino.
- Ha bisogno di qualcosa?
La donna si girò lentamente, continuando a camminare. Era pallida ma gli occhi ardevano. I capelli biondi, bagnati, attaccati alle guance. Un neo proprio al centro della guancia sinistra. Bellissima. Non avrei mai più dimenticato quello sguardo ardente diretto a me e insieme verso il centro del nulla. Come uscisse da altre coordinate spazio temporali. Un tuffo al cuore.
Procedevo al suo passo.
- Avanti salga, non abbia timore.
La donna allungò il braccio verso la maniglia dello sportello. Un attimo dopo sedeva al mio fianco; tutta bagnata guardava fisso davanti. Il torace al respiro le si alzava ed abbassava. Sotto il vestito di seta, reso trasparente dalla pioggia, ad ogni inspirazione affioravano le costole parallele. Un roseo seno prosperoso. I capezzoli induriti. I pori della pelle d’avorio. Pelle d’oca.
- Aspetti ancora, dissi.
Trangugiai saliva, il pomo d’Adamo salì e scese nel collo.
Con una torsione del tronco, il mio braccio teso raggiunse il sedile posteriore, sormontato dai vestiti dondolanti. Stirando l’indice al massimo agganciai la giacca dietro. La sistemai sulle spalle di lei.
- Se la metta, morirà dal freddo.
La donna rimase indifferente a fissare davanti un punto invisibile. Solo un angolo della sua bocca si mosse ad accennare un sorriso. Poi sembrò riassorbita in sé. Il contatto con l’omero esile mi fece rabbrividire. Sensazione mista di sensualità e di angoscia. Per un momento mi invase il sospetto di essere dentro un sogno e non nella realtà. Era come se mi vedessi da fuori; percepivo le cose in uno stato di maggiore intensità emotiva. Ebbi la sensazione di aver già vissuto quella scena. I déjà vu mi capitavano spesso. Una volta ne parlai con uno zio prete, Don Baldassare, molto anziano e di letture originali. Lo zio mi riferì una credenza antica, di dubbia origine, tratta dall’esoterismo persiano e indiano. Che ogni cosa che facciamo l’abbiamo già fatta, come in una specie di tempo circolare eterno. E torniamo a fare ed incontrare le stesse cose e persone. Solo che non ce ne ricordiamo perché il tempo della nostra anima non si misura con l’esistenza presente ma con tutto il ciclo delle nostre esistenze passate e future.
- Ma non diciamolo al Vescovo, altrimenti mi manda in mezzo alle vacche a dire messa! A Grisì, perlomeno mi manda! La battuta dello zio.
Eravamo seduti a un tavolino per la solita partita a scacchi del sabato mattina in sacrestia. Mi ricordo del bicchiere di vino rosso, della sua risata prolungata, degli occhi malinconici, profondi.
- Come si chiama signorina? Dissi con voce ferma.
- Anna.
- Io Giuseppe. Ma si può sapere che faceva sotto un temporale così? Dove andava, caspita?
- Mi sono persa.
- Meno male che ha incontrato me. Se permette l’accompagno a casa.
- Grazie.
- Lei sta tremando dal freddo.
La donna mi sorrise ancora, grata, poi continuò a guardare avanti, assorta nei suoi pensieri. Era di una bellezza fatale. Mentre guidavo non potevo evitare di far cadere ogni tanto lo sguardo su quelle cosce perfettamente tornite all’altezza dell’orlo di seta del vestito. La sua attrazione su di me era allo stesso tempo sensuale e spirituale; i due piani coincidevano. Mi sembrava di conoscerla da sempre. Il déjà vu persisteva: io avevo già vissuto quella scena. Mi stava accadendo una cosa che mi doveva accadere per destino. Per qualche secondo rimasi ipnotizzato. La desideravo. Avrei avuto voglia di possederla, lì, in quel momento, sotto il temporale.
- In che quartiere abita Anna?
- Santu Vituzzu.
Lo conoscevo bene. Era il vetusto centro storico di Alcamo. C’eravamo già dentro. Una sorta di Medina con stradine, cortili, balaustre su dirupi, scalinate, case sbilenche, semidiroccate, abbandonate da secoli. Il vecchio quartiere che si snoda attorno alla biviratura araba. Qui gli islamici costruirono il primo nucleo del casale di Alqamah.
Svoltai a sinistra lasciandomi dietro la prima chiesa madre di Alcamo, Santa Maria della Stella – sommersa nell’oblio di un abbandono secolare – e una grande croce di ferro arrugginito posta su un piedistallo di marmo dov’é impressa, in una cornice ovale, l’effige della Madonna Addolorata: “A Santa Cruci”. Salii per un budello lastricato in blocchi di travertino, scesi ancora a sinistra, costeggiai la Biviratura. Salii ancora e mi trovai dentro il dedalo labirintico di case in calce. Il quartiere era deserto. Sembrava che tutti fossero fuggiti in un tempo lontano. Le case basse, con archi di pietra a secco, chiuse o abbandonate, i portoni di legno rugoso con la vernice sbiadita, i canali, le tendine polverose, i muri inquacinati gibbosi e scrostati. In molti portoni era affisso – chissà da quanti decenni ormai – un rettangolo di stoffa nera obliqua, in segno di lutto. Negli anni Ottanta e negli anni Novanta due guerre di mafia avevano fatto fuori due generazioni di ragazzi proprio di questo quartiere. Un anziano poliomielitico, depositato a terra, con le gambe rinsecchite, incrociate, davanti a un uscio, fissava con occhi inespressivi una crepa, diramata come un fulmine, nel muro di fronte. Una vecchia, imbacuccata di vesti nere e sciallina in spalle, lavorava a un telaio su una sedia impagliata; il suo viso contornato dal velo nero sembrava una maschera grinzosa come quelle che a Carnevale le cartolibrerie espongono nelle vetrine. Un mulo, col suo basto di legna e fieno, batteva uno zoccolo a terra e muoveva le orecchie per scacciare le mosche. Molte strade si perdevano nel nulla di cortili in terra battuta o, senza soluzione di continuità, nella campagna. A tratti tornava il sole e, con potenti cambi di luce, disegnava i profili d’ombra delle case sulla strada vuota. Uno strano silenzio avvolgeva ogni cosa. Quel quartiere trascinava la sua vita in una lunga, fatata eutanasia. Il tempo non sembrava toccarlo. I pochi rimasti continuavano a vivere come cinquanta o sessant’anni prima. Galline scorazzavano in un cortile becchettando a terra qualche mollica con il loro petulante chioccio, le cicale intonavano la loro prosodia monotona, si udiva a intermittenza il tintinnio di campanelle al collo da ovili non lontani. Un’atmosfera malinconica, come in tutti i quartieri degradati.
- Sono arrivata.
Mi guardò e sorrise con dolcezza. Non potevo farmela sfuggire così. Dovevo trattenerla. La sua semplice presenza mi faceva battere forte il cuore nel petto.
- Ascolti Anna, tenga pure la mia giacca adesso, lei è ancora tutta infreddolita. Io faccio il giro solito dei negozi. So già che il mio lavoro mi porterà via tre ore. Alla fine, se non le dispiace, mi vengo a riprendere la giacca e così abbiamo l’occasione di bere un tè caldo insieme e scambiare due chiacchiere. Le va?
- Va bene, sorrise.
La vidi attraversare la strada, infilarsi in una stradina e svanire dentro l’ombra di un portone.
La vecchia grinzosa alzò gli occhi dal telaio e mi fissò insistentemente. La ignorai.
- Allora abita lì? Dissi ancora, alzando un po’ la voce per farmi sentire dall’interno dell’abitacolo.
- Sì.
- Ci vediamo tra poco.
- L’aspetto.
Feci il mio lavoro con febbrile svogliatezza. In realtà pensai continuamente a lei. Ma non mi sentivo come avrei dovuto, anzi piuttosto depresso. Possibile che un incontro di cinque minuti mi poteva sconvolgere? Che fosse un colpo di fulmine? Sorrisi tra me alzando una spalla. Avevo già passato l’adolescenza da un pezzo e neanche allora ero così romantico da credere al colpo di fulmine. Eppure tornavo a pensare a lei. Qualcosa di inesplicabile mi legava a quella donna. E poi quella strana sensazione di averla già conosciuta. Ne ero del tutto sicuro, ma più cercavo di capire in che modo e più i pensieri si sfocavano. Ero ad un passo dal capire ma poi perdevo il bandolo. Come quando entri nella tua stanza e ti accorgi al volo che c’è qualcosa fuori posto ma non riesci a individuarla, ti sfugge, e poi all’improvviso: ecco cos’era! Ma nel mio caso tutto si risolveva in nebbia, in una sensazione di attrazione e mistero incombente.
Completai il mio giro con il negozio di Santino. Lo lasciavo sempre per ultimo perché eravamo amici e mi concedevo una chiacchierata di rito con lui alla fine. Ci fumammo una sigaretta. Santino aveva qualche anno in più di me, capelli brizzolati; solitario ed elegante. Come me non si era sposato e aveva sul viso un’ombra, un’inquietudine. Gli parlai del mio incontro con Anna. Si grattò la testa, non riusciva ad inquadrarla e la cosa gli sembrò strana perché in quel quartiere conosceva tutti fin da bambino.
Niente. Buttai il mozzicone a terra, gli strinsi la mano, misi in moto. Salii dritto, superai la via Porta Stella – un’antica solitaria stradina piena di edicole votive, i fiureddi – , raggiunsi il Castello, un lampo del sole redivivo abbagliò il parabrezza accecandomi per un attimo, svoltai dalla Via Commendatore Navarra, scesi giù da Piazza Bagolino ed arrivai di nuovo nel cuore del quartiere Santu Vituzzu. Sbattei lo sportello, mi guardai intorno. Dunque era qui che l’avevo lasciata e quella è la casa. Il portone dava in un cortile che veniva interrotto da un enorme muro di blocchi di pietra squadrati. Era un pezzo delle mura medievali di cinta, sopravvissuto all’ingiuria dei secoli e delle devastazioni. Su di esso un rampicante apriva penduli fiori arancione che da bambini chiamavamo sucameli perché, succhiandoli da sotto, davano un sapore fresco e zuccheroso. Api e calabroni mischiavano i loro ronzii come sibili di mantra tibetani nell’umida calura. Un cancello mangiato dalla ruggine immetteva in un religioso silenzio d’orti.
Giunto davanti al portone mi resi conto che non c’era alcun campanello.
Picchiai il legno con il battente di ferro arrugginito a forma di testa di leone.
Tutta la casa riecheggiò di rimbombi dalle fondamenta.
Ebbi immediatamente la certezza che era disabitata. Disappunto. Mi guardai di nuovo intorno. Nessun’anima viva. Tornai a picchiare ancora più forte. Feci tre passi indietro. Squadrai tutta la casa.
Un geranio in un vaso sul balcone mezzo divelto era totalmente secco. Non c’erano più dubbi: era deserta e anche da molto tempo.
Mi accesi deluso l’ennesima sigaretta.
Il fracasso del battente aveva attirato la vecchietta dal viso rugoso, che, lasciato il telaio, si era alzata e curiosava apertamente dandosi appena un contegno col fare finta di spazzare il marciapiede.
Colsi l’occasione.
- Scusi tanto, ma la signorina Anna non abita qui?
Mi guardò allocchita, poi si avvicinò, sostenendo i suoi passi malfermi con la scopa.
- Comu rici? Ripitissi pi favuri. Aveva occhi azzurri e acquosi, uno dei quali ottenebrato da una cataratta.
- Sì, dicevo: stamattina ho lasciato la signorina Anna a casa sua e adesso dovevamo rivederci. Ma non abita qui?
- Nna sta casa nun ci sta chiù nuddu da sessant’anni.
- Ma se appena tre ore fa ho dato un passaggio a una ragazza di nome Anna e l’ho vista entrare coi miei occhi in questo portone!
Mi ha visto pure lei, ricorda? Stava seduta al telaio lì di fronte e ci guardava.
- Sintissi giuvini: veru è chi stamatina la taliavu quannu si firmà cca, ma lu sapi picchì? Picchì mi paria – cu rispettu parrannu – un foddi chi parrava sulu.
- Ma come sarebbe? Parlavo solo? Non ha visto la ragazza? Possibile che abita qui e lei non conosce Anna? Mi stavo spazientendo con quella vecchia bacucca.
Per un attimo sembrò rianimarsi, scuotersi.
- Scusassi, ma comu rici chi si chiamava sta picciuttedda?
- Anna si chiama.
Il suo occhio limpido si fece più attento e fisso. Tornò a scrutarmi dalla testa ai piedi e poi all’inverso dai piedi alla testa. Mi dava ai nervi. Le mani ossute, piene di vene varicose le tremavano. Aveva il Parkinson.
- Attintassi: veru sessant’anni narré cca ci stava na signurina chi si chiamava Anna. Na bedda signurina: stavamu tuttu u jornu nsemula, aviamu crisciutu comu soru di quann’eramu picciriddi, chi ghiucavamu cu i bamboli ncapu stu scaluni; picchì la so casa era a tuccari cu chidda me. Ma poi idda murìu. Muriu di disgrazia: si lassò moriri nnu lettu p’amuri d’un picciottu.
Restai interdetto. Un brivido mi corse dietro la schiena. Non saprei dire perché. Forse per la situazione surreale, e forse perché la vecchia continuava a lanciarmi sguardi in modo morboso.
- Mi ricissi natra cosa picciottu, – la vecchia si appoggiò al mio braccio e, ingobbita, mi scrutò da sotto in su col suo occhio sano, azzurro più che mai, avvicinandosi in modo spaventoso – ma lei comu si chiama?
- Giuseppe.
- Ah mu mmagginavaa, ebbe come un sorrisetto d’oltretomba, ma era innocua. Poverina doveva essere mezza tocca per via del Parkinson.
- Ma perché mi continua a guardare così, signora? Che fa mi conosce?
- Certu ca ti canuscivu! All’iniziu mi meravigghiavu assai, taliannuti e ritaliannuti, ma ormai sugnu vecchia e naiu vistu troppi cosi pi meravigghiarimi ancora. Ormai haiu chiù cunfirenza cu i morti chi cu i vivi. Aspettu sulu chi u Signuri m’arricogghi puru a mia.
Accussì perciò turnasti! Ta vinisti a pigghiari?
Ciò detto si fece la croce tre volte di seguito. Una lacrima le scivolò sulla guancia. Era del tutto evidente che mi scambiava con qualcun’altro e che al contempo fosse del tutto andata con la testa. Probabilmente alternava momenti di lucidità a momenti di obnubilamento. Dalle nostre parti la gente comune non va tanto per il sottile distinguendo negli anziani la pazzia, l’estrema vecchiezza, la perdita di memoria, l’Alzheimer, il morbo di Parkinson. Si usa dire che perdono colpi, che hanno l’arterii scurusi, l’arteriosclerosi, facendo di tutta l’erba un fascio. Questa era combinata così, non c’era dubbio. Ciò nonostante sperando mi desse una dritta per ritrovare Anna le diedi ancora corda.
- Sì, signora, sono venuto a prendere Anna. Ma non abita davvero qui? O in un altro portone? Sembra tutto disabitato il cortile…
- Ca certu ca stava cca. T’aspittà finu a la morti, t’aspittà. T’aspittà eternamenti.
- Mi racconti signora.
Riattaccò a parlare con la sua voce melodica e quasi in falsetto.
- E chi te cuntari a tia? So patri era troppu tintu cu idda, ed eranu puru autri tempi. Quannu u patri ricìa no era no. Annuzza era però un ancilu e l’ancili arraggiunanu megghiu cu i cieli ca cu l’omini. Perciò quannu so patri la nchiusi a chiavi rintra a so stanza, idda si curcau e dissi chi si un putia avillu nta sta terra allura l’avissi avutu ntall’atra terra, ncelu. Si fici a cruci e dissi: sia fatta a volontà di Diu. Un vosi chiù manciari. Avogghia a matri di priarla: nun ci fu chiù nenti di fari. A picciuttedda si lassò moriri ricennu ca senza iddu nun putìa chiù campari e chi si so patri nun vulìa, macari c’era speranza ca vulìa u Patri eternu. Annuzza accussì iu narrè narrè comu u curdaru. Puru iu ci ia ogni ghiornu o capizzu du lettu a cunsularla, ma idda ripitìa sempri a stessa musica. Aspittava a iddu e dicìa ca u destinu era destinu. Doppu tri misi murìu. Era bedda di moriri puru nno lettu di morti.
- Ma il ragazzo non fece niente?
- U picciottu si scantau di minacci du patri chi era ntisu assai a u paisi d’Arcamu. E accussì pi scurdarisilla fici i valiggi e partiu a vuscarisi u pani dda ncapu. Poi urtimamenti ncuntrai a so soru o cimiteru e mi rissi ca muriu puru. Mancu iddu si maritau chiù; signali ca nun ci arriniscì a scurdarisilla, ma nun turnà chiù o paisi.
Ora ti ricanuscivu Giuseppi: tardu vinisti a pigghialla, un ci sta chiù nuddu cca. A casa però idda è, giustu ta ricordasti. Ma sa vo viriri agghiri o primu cimiteru.
Ero frastornato e contrariato. Quella vecchia pazza mi toccava il viso, mi stringeva le mani. Nauseato mi liberai dalle moine della stolida. Ridetti un ultimo sguardo alla casa desolatamente abbandonata e corsi subito in macchina. Mi girava la testa. Vaffanculo, pensai. Lasciai quel luogo in fretta, come fuggendo, non so neanche io da cosa. Ma l’oppressione non mi aveva abbandonato. Non era per la giacca, di cui in fondo non mi importava un fico secco. Sentivo l’angoscia all’altezza dello sterno. La strada scendeva al di sotto della biviratura nel cui slargo ebbi il tempo di notare due bambini con i vestiti sporchi di fango che si accanivano a insudiciare un povero handicappato dalla testa enorme. Idrocefalo. Accelerai. Basta. Tirai un lungo sospiro. Imboccai la strada di contrada San Gaetano e in breve mi ritrovai all’altezza del primo cimitero. Dopo la curva, lungo il rettilineo che porta al secondo cimitero, ero nel punto esatto dove avevo visto Anna la prima volta. Ebbi in un lampo un’ultima tentazione. Frenai. Un automobilista dietro – per poco non mi sbatteva – strombazzò il clacson stizzito e superandomi fece ripetutamente il gesto di toccarsi la tempia con un dito. Feci inversione e dopo cento metri posteggiai nella stradina laterale di ingresso al primo cimitero. Era l’antivigilia della festa dei morti. Entrai. Qui una pace assorta sommergeva ogni cosa. Il temporale aveva lavato le stradine interne e le lapidi. Ristagnava un odore penetrante di terra umida misto a fiori in putrefazione. Due vecchiette armeggiavano con secchi e stracci a pulire una sepoltura. Una giovane vedova in lutto stretto fissava la foto del marito morto da poco e dondolava impercettibilmente il busto. Ecco il custode del cimitero a fianco di una moto l’ape a tre ruote. Scendeva delle corone di fiori e le posava presso il muro della camera mortuaria dove gli ultimi uomini di un corteo funebre ancora si attardavano dopo la cerimonia e l’accompagnamento di un defunto. Si vedeva dentro l’angusta camera la bara di legno lucido con i manici laterali in ottone e una grande croce sopra. Alla spicciolata gli ultimi rimasti si facevano la croce, salutavano e andavano via. Non sapevo neanche cosa esattamente cercassi, ma continuai a vagare per il cimitero che era molto vasto, antico e con vetuste cappelle, statue e monumenti d’ogni genere, anche di pregevole fattura. C’erano cappelle gentilizie in stile arabo, normanno, neoclassico. Stele di marmo travertino, croci, santi, obelischi. Vidi innumerevoli foto di defunti, lessi altrettanto innumerevoli epitaffi ed iscrizioni devozionali. Forse sentii la campanella che annunciava l’imminente chiusura del cimitero, ma non vi feci caso e non mi affrettai all’uscita.
Continuai a girovagare tra le lapidi e i monumenti.
Entrai nelle chiese, passai in rassegna gli avelli, scesi a un certo punto nei colombari, cioè nelle catacombe sotterranee dei defunti più poveri, sepolti uno sopra l’altro in muri altissimi di corridoi bui e fetidi.
Le candele rossastre proiettavano ombre inquietanti alle pareti e i visi delle foto al danzare della fiamma sembravano sinistramente rianimarsi.
Persi la cognizione del tempo.
Adesso era piena notte. Il cielo era di un blu terso e la volta delle stelle era bellissima sopra la mia testa.
Alla pallida luce di una luna piena stranamente vicina, al suono dei grilli, al luccicare delle lucciole e dei fuochi fatui che fuoriuscivano dalle fenditure delle lapidi più vecchie ormai erbose, vagai senza pensieri.
Ululati di cani ogni tanto si inseguivano perdendosi nella lontananza di contrade di campagna.
Non so a che ora precisa della notte fu che qualcosa attirò la mia attenzione, risvegliandomi dal narcotizzante deambulare.
Mi sembrava una sagoma in piedi ed ebbi paura. Mi accorsi che invece era qualcosa di scuro che pendeva da una lapide. Mi avvicinai lentamente.
Con grande stupore notai che era la mia giacca.
La giacca che avevo usato per coprire le spalle tremanti di Anna.
Mi avvicinai ancora di più e guardai la tomba. Nella foto riconobbi Anna.
Era vestita esattamente come l’avevo vista poche ore prima. Riconobbi tutto, compreso il neo nella guancia. Rimasi stupefatto dalla rivelazione.
Avevo dunque incontrato un fantasma.
Ero impietrito, incapace di muovermi, di prendere qualsiasi decisione. Non riuscivo a capacitarmi di quello che mi era avvenuto.
Pensavo, cercavo di mettere in ordine i miei pensieri senza riuscirvi. Erano una matassa ingarbugliata.
Perché il fantasma si era manifestato proprio a me? Era Anna che mi aveva attirato alla sua tomba guidando segretamente i miei pensieri? Che voleva da me il fantasma? Il viso della foto sembrava vivo e sorridermi dolcemente.
Ebbi paura.
Sconvolto voltai le spalle e mi avviai risoluto alla ricerca dell’uscita.
Finalmente mi ero risvegliato dal torpore e stavo vincendo il lugubre incantesimo. Ecco lì in fondo il cancello principale. Accelerai il passo.
Dovevo scavalcare e salvarmi da quell’atmosfera opprimente.
Raggiunsi il cancello di corsa. Feci per scavalcare ma, mio Dio: appena afferrai le sbarre per darmi lo slancio e salire in piedi mi accorsi che il mio corpo poteva attraversare il cancello chiuso senza nessuna opposizione.
Mi accorsi che non avevo più un corpo materiale. Potevo entrare e uscire dal cancello chiuso perché ero fatto di spirito!
Capii in quel momento che ero morto e che la vecchia del quartiere di Santu Vituzzu non era affatto pazza.
Pioggia mista a grandine, crepitii amplificati dall’abitacolo, picchiettii sul tetto, sul cofano, sul vetro della Ford Transit. Di tanto in tanto una gragnola come una raffica di mitra. Pace del non tempo di un temporale autunnale.
Il tergicristallo azionato a tutta, con un suono distante di risucchiato gemito, permetteva a malapena la vista di qualche metro di strada allagata.
Non m’inquietai, anzi in queste circostanze mi rilassavo.
Viaggiavo per lavoro tutti i giorni, a quei tempi. Rappresentante di una ditta di vestiti. Facevo il giro dei negozi di abbigliamento delle province di Palermo, Agrigento e Trapani. E in strada ne avevo viste di tutti i colori.
Rallentai sulla bretella che collega l’uscita autostradale di Alcamo-est alla provinciale Alcamo-Alcamo Marina.
Svoltai per Alcamo. I temporali mi erano sempre piaciuti.
Sembrava ieri. Pensai a quella volta che, bambino, mia madre mi sgridò solennemente perché ero rientrato a casa bagnato fradicio dalla testa ai piedi. Uscendo dalla scuola mentre imperversava un temporale con fulmini e boati mi ero incamminato senza meta nelle strade del paese deserto ed ero tornato solo a sera. Non saprei dire cosa avevo fatto per quelle ore: avevo vagato. Adoravo vedere le cose attraverso la pioggia. Ricordo solo che camminavo lentamente in una calma beata mentre mi penetrava una freschezza irresistibile. In quei momenti mi assaliva una specie di tristezza eroica, solitaria, e tutto appariva nella sua verità. Ma non saprei spiegare. Le parole sono inutili se non lo hai mai provato. Quella tristezza mi rendeva partecipe di un segreto inaccessibile, in una landa eterna di libertà malinconica. Mi stupii del tempo passato. Appena un attimo fa era quel bambino e dopo quest’attimo – milioni di attimi identici quindi un solo attimo – ero già qui a compiere il mio giro delle province. Ma chi ero veramente? Che ci facevo al volante?
Focalizzai ancora per un istante l’insegna Alcamo; quella con la scritta Alcamo Marina invece indicava verso destra. Guardando alternativamente dagli specchietti laterali – dal retrovisore interno vedevo una fila di vestiti pendenti nelle grucce allineate a una stecca – notai che non c’era nessuno dietro. Né davanti. Mi cullavano la sinfonia battente della pioggia, lo strascico felpato con singhiozzo ritmico dei tergicristalli, le cascatelle dell’acqua che si alzavano da sotto le gomme, il tintinnare ferroso delle grucce con i vestiti appesi.
Da almeno un’ora non incontravo anima viva. Nessuna macchina. D’altronde con quella burrasca. Solo un po’ prima – un po’ quanto? Avevo perso la dimensione del tempo – avevo intravisto ai margini della strada, in un vigneto digradante, un gregge con il suo pastore. Visione di due secondi: un tipo alto, quasi monumentale, con una lunga barba grigia, le pecore ferme, una verga in mano. Neanche a lui sembrava importare nulla del temporale. Mi fissò al passaggio. Mosè pascola le sue pecore. Pensai anche a un pastorello di terracotta del presepio di mia nonna.
Allungai il braccio destro e presi il pacchetto rosso e bianco con la scritta Marlboro. Associazione diretta con la Ferrari. Sfilai una sigaretta, l’annusai, me la misi in bocca senza accenderla. Gettai di nuovo sul sedile il pacchetto che fece un muto sobbalzo sulla stoffa blu e si riposizionò accanto a una penna Bic nera senza astuccio, a un’agenda con copertina di cuoio sciupato tutta gonfia di pizzini inseriti, all’accendino di metallo a petrolio – che era stato di mio padre –, agli occhiali da sole, al mazzo di chiavi tra le quali spiccava quella verniciata verde della porta della casa sul mare. Vi abitavo solitario da tre anni. Le stanze mute – pensai – mi aspettavano nella loro disumana immobilità. Immaginai, anzi mi sembrò di vedere, i soprammobili, le tende, le maniglie delle porte. Il monotono rumore delle onde sulla battigia. Solitudine.
Sul cruscotto era attaccato un foglio giallo con gli ordini dei negozi. Nome, via, numero, telefono, ordinati in colonne.
Dalle cunette come due fiumi fangosi tracimavano sull’asfalto tingendolo di marrone. Le gocce nell’attimo in cui sbattevano a terra formavano sulla strada allagata miriadi di minuscole conche. Individuai l’accendino, riallungai il braccio, lo presi, feci una pressione col pollice destro sulla rotellina dentata che sfregò la pietrina, scintillò, si generò una fiamma troppo grande, una fumata e un acre odore di petrolio. Accesi la sigaretta. Aspirai avidamente il fumo che per un attimo avevo fatto galleggiare dentro la bocca semiaperta. Lo tenni a lungo nei polmoni, infine con una lunga espirazione lo diressi sopra una mosca che, imprigionata nell’abitacolo, tentava testardamente una vana evasione sbattendo la testa sul vetro. Impossibile varco. Fu sommersa dal fumo, poi cambiò volo uscendo dalla vista. Il suo sibilo si interruppe. Si risentì a tratti, coperto dalle mitragliate della grandine.
Classico temporale di fine ottobre.
Un sole tisico non riusciva proprio a farsi spazio dietro la fitta coltre di nubi.
Pur essendo ancora le 16.00 c’era già un buio notturno.
Non ero ancora giunto al curvone del cimitero vecchio – gli alcamesi lo chiamano “primo cimitero” – che notai una giovane donna proprio sotto l’impazzata del temporale. Sola, camminava con passo di felino. A parte lo stupore, la cosa che mi attrasse di più fu l’avvenenza dell’incedere. Le forme del corpo, sotto un vestito demodé di seta bianca, prorompevano sensuali. L’acqua attaccava la sottile stoffa alle cosce ben tornite, i glutei serici sballottavano a ogni passo, le caviglie erano sicure sui tacchi. Notai il caschetto dei capelli anni Trenta, la borsetta minuscola, le reggicalze in trasparenza. Spensi la sigaretta. Rallentai, l’affiancai, abbassai il finestrino.
- Ha bisogno di qualcosa?
La donna si girò lentamente, continuando a camminare. Era pallida ma gli occhi ardevano. I capelli biondi, bagnati, attaccati alle guance. Un neo proprio al centro della guancia sinistra. Bellissima. Non avrei mai più dimenticato quello sguardo ardente diretto a me e insieme verso il centro del nulla. Come uscisse da altre coordinate spazio temporali. Un tuffo al cuore.
Procedevo al suo passo.
- Avanti salga, non abbia timore.
La donna allungò il braccio verso la maniglia dello sportello. Un attimo dopo sedeva al mio fianco; tutta bagnata guardava fisso davanti. Il torace al respiro le si alzava ed abbassava. Sotto il vestito di seta, reso trasparente dalla pioggia, ad ogni inspirazione affioravano le costole parallele. Un roseo seno prosperoso. I capezzoli induriti. I pori della pelle d’avorio. Pelle d’oca.
- Aspetti ancora, dissi.
Trangugiai saliva, il pomo d’Adamo salì e scese nel collo.
Con una torsione del tronco, il mio braccio teso raggiunse il sedile posteriore, sormontato dai vestiti dondolanti. Stirando l’indice al massimo agganciai la giacca dietro. La sistemai sulle spalle di lei.
- Se la metta, morirà dal freddo.
La donna rimase indifferente a fissare davanti un punto invisibile. Solo un angolo della sua bocca si mosse ad accennare un sorriso. Poi sembrò riassorbita in sé. Il contatto con l’omero esile mi fece rabbrividire. Sensazione mista di sensualità e di angoscia. Per un momento mi invase il sospetto di essere dentro un sogno e non nella realtà. Era come se mi vedessi da fuori; percepivo le cose in uno stato di maggiore intensità emotiva. Ebbi la sensazione di aver già vissuto quella scena. I déjà vu mi capitavano spesso. Una volta ne parlai con uno zio prete, Don Baldassare, molto anziano e di letture originali. Lo zio mi riferì una credenza antica, di dubbia origine, tratta dall’esoterismo persiano e indiano. Che ogni cosa che facciamo l’abbiamo già fatta, come in una specie di tempo circolare eterno. E torniamo a fare ed incontrare le stesse cose e persone. Solo che non ce ne ricordiamo perché il tempo della nostra anima non si misura con l’esistenza presente ma con tutto il ciclo delle nostre esistenze passate e future.
- Ma non diciamolo al Vescovo, altrimenti mi manda in mezzo alle vacche a dire messa! A Grisì, perlomeno mi manda! La battuta dello zio.
Eravamo seduti a un tavolino per la solita partita a scacchi del sabato mattina in sacrestia. Mi ricordo del bicchiere di vino rosso, della sua risata prolungata, degli occhi malinconici, profondi.
- Come si chiama signorina? Dissi con voce ferma.
- Anna.
- Io Giuseppe. Ma si può sapere che faceva sotto un temporale così? Dove andava, caspita?
- Mi sono persa.
- Meno male che ha incontrato me. Se permette l’accompagno a casa.
- Grazie.
- Lei sta tremando dal freddo.
La donna mi sorrise ancora, grata, poi continuò a guardare avanti, assorta nei suoi pensieri. Era di una bellezza fatale. Mentre guidavo non potevo evitare di far cadere ogni tanto lo sguardo su quelle cosce perfettamente tornite all’altezza dell’orlo di seta del vestito. La sua attrazione su di me era allo stesso tempo sensuale e spirituale; i due piani coincidevano. Mi sembrava di conoscerla da sempre. Il déjà vu persisteva: io avevo già vissuto quella scena. Mi stava accadendo una cosa che mi doveva accadere per destino. Per qualche secondo rimasi ipnotizzato. La desideravo. Avrei avuto voglia di possederla, lì, in quel momento, sotto il temporale.
- In che quartiere abita Anna?
- Santu Vituzzu.
Lo conoscevo bene. Era il vetusto centro storico di Alcamo. C’eravamo già dentro. Una sorta di Medina con stradine, cortili, balaustre su dirupi, scalinate, case sbilenche, semidiroccate, abbandonate da secoli. Il vecchio quartiere che si snoda attorno alla biviratura araba. Qui gli islamici costruirono il primo nucleo del casale di Alqamah.
Svoltai a sinistra lasciandomi dietro la prima chiesa madre di Alcamo, Santa Maria della Stella – sommersa nell’oblio di un abbandono secolare – e una grande croce di ferro arrugginito posta su un piedistallo di marmo dov’é impressa, in una cornice ovale, l’effige della Madonna Addolorata: “A Santa Cruci”. Salii per un budello lastricato in blocchi di travertino, scesi ancora a sinistra, costeggiai la Biviratura. Salii ancora e mi trovai dentro il dedalo labirintico di case in calce. Il quartiere era deserto. Sembrava che tutti fossero fuggiti in un tempo lontano. Le case basse, con archi di pietra a secco, chiuse o abbandonate, i portoni di legno rugoso con la vernice sbiadita, i canali, le tendine polverose, i muri inquacinati gibbosi e scrostati. In molti portoni era affisso – chissà da quanti decenni ormai – un rettangolo di stoffa nera obliqua, in segno di lutto. Negli anni Ottanta e negli anni Novanta due guerre di mafia avevano fatto fuori due generazioni di ragazzi proprio di questo quartiere. Un anziano poliomielitico, depositato a terra, con le gambe rinsecchite, incrociate, davanti a un uscio, fissava con occhi inespressivi una crepa, diramata come un fulmine, nel muro di fronte. Una vecchia, imbacuccata di vesti nere e sciallina in spalle, lavorava a un telaio su una sedia impagliata; il suo viso contornato dal velo nero sembrava una maschera grinzosa come quelle che a Carnevale le cartolibrerie espongono nelle vetrine. Un mulo, col suo basto di legna e fieno, batteva uno zoccolo a terra e muoveva le orecchie per scacciare le mosche. Molte strade si perdevano nel nulla di cortili in terra battuta o, senza soluzione di continuità, nella campagna. A tratti tornava il sole e, con potenti cambi di luce, disegnava i profili d’ombra delle case sulla strada vuota. Uno strano silenzio avvolgeva ogni cosa. Quel quartiere trascinava la sua vita in una lunga, fatata eutanasia. Il tempo non sembrava toccarlo. I pochi rimasti continuavano a vivere come cinquanta o sessant’anni prima. Galline scorazzavano in un cortile becchettando a terra qualche mollica con il loro petulante chioccio, le cicale intonavano la loro prosodia monotona, si udiva a intermittenza il tintinnio di campanelle al collo da ovili non lontani. Un’atmosfera malinconica, come in tutti i quartieri degradati.
- Sono arrivata.
Mi guardò e sorrise con dolcezza. Non potevo farmela sfuggire così. Dovevo trattenerla. La sua semplice presenza mi faceva battere forte il cuore nel petto.
- Ascolti Anna, tenga pure la mia giacca adesso, lei è ancora tutta infreddolita. Io faccio il giro solito dei negozi. So già che il mio lavoro mi porterà via tre ore. Alla fine, se non le dispiace, mi vengo a riprendere la giacca e così abbiamo l’occasione di bere un tè caldo insieme e scambiare due chiacchiere. Le va?
- Va bene, sorrise.
La vidi attraversare la strada, infilarsi in una stradina e svanire dentro l’ombra di un portone.
La vecchia grinzosa alzò gli occhi dal telaio e mi fissò insistentemente. La ignorai.
- Allora abita lì? Dissi ancora, alzando un po’ la voce per farmi sentire dall’interno dell’abitacolo.
- Sì.
- Ci vediamo tra poco.
- L’aspetto.
Feci il mio lavoro con febbrile svogliatezza. In realtà pensai continuamente a lei. Ma non mi sentivo come avrei dovuto, anzi piuttosto depresso. Possibile che un incontro di cinque minuti mi poteva sconvolgere? Che fosse un colpo di fulmine? Sorrisi tra me alzando una spalla. Avevo già passato l’adolescenza da un pezzo e neanche allora ero così romantico da credere al colpo di fulmine. Eppure tornavo a pensare a lei. Qualcosa di inesplicabile mi legava a quella donna. E poi quella strana sensazione di averla già conosciuta. Ne ero del tutto sicuro, ma più cercavo di capire in che modo e più i pensieri si sfocavano. Ero ad un passo dal capire ma poi perdevo il bandolo. Come quando entri nella tua stanza e ti accorgi al volo che c’è qualcosa fuori posto ma non riesci a individuarla, ti sfugge, e poi all’improvviso: ecco cos’era! Ma nel mio caso tutto si risolveva in nebbia, in una sensazione di attrazione e mistero incombente.
Completai il mio giro con il negozio di Santino. Lo lasciavo sempre per ultimo perché eravamo amici e mi concedevo una chiacchierata di rito con lui alla fine. Ci fumammo una sigaretta. Santino aveva qualche anno in più di me, capelli brizzolati; solitario ed elegante. Come me non si era sposato e aveva sul viso un’ombra, un’inquietudine. Gli parlai del mio incontro con Anna. Si grattò la testa, non riusciva ad inquadrarla e la cosa gli sembrò strana perché in quel quartiere conosceva tutti fin da bambino.
Niente. Buttai il mozzicone a terra, gli strinsi la mano, misi in moto. Salii dritto, superai la via Porta Stella – un’antica solitaria stradina piena di edicole votive, i fiureddi – , raggiunsi il Castello, un lampo del sole redivivo abbagliò il parabrezza accecandomi per un attimo, svoltai dalla Via Commendatore Navarra, scesi giù da Piazza Bagolino ed arrivai di nuovo nel cuore del quartiere Santu Vituzzu. Sbattei lo sportello, mi guardai intorno. Dunque era qui che l’avevo lasciata e quella è la casa. Il portone dava in un cortile che veniva interrotto da un enorme muro di blocchi di pietra squadrati. Era un pezzo delle mura medievali di cinta, sopravvissuto all’ingiuria dei secoli e delle devastazioni. Su di esso un rampicante apriva penduli fiori arancione che da bambini chiamavamo sucameli perché, succhiandoli da sotto, davano un sapore fresco e zuccheroso. Api e calabroni mischiavano i loro ronzii come sibili di mantra tibetani nell’umida calura. Un cancello mangiato dalla ruggine immetteva in un religioso silenzio d’orti.
Giunto davanti al portone mi resi conto che non c’era alcun campanello.
Picchiai il legno con il battente di ferro arrugginito a forma di testa di leone.
Tutta la casa riecheggiò di rimbombi dalle fondamenta.
Ebbi immediatamente la certezza che era disabitata. Disappunto. Mi guardai di nuovo intorno. Nessun’anima viva. Tornai a picchiare ancora più forte. Feci tre passi indietro. Squadrai tutta la casa.
Un geranio in un vaso sul balcone mezzo divelto era totalmente secco. Non c’erano più dubbi: era deserta e anche da molto tempo.
Mi accesi deluso l’ennesima sigaretta.
Il fracasso del battente aveva attirato la vecchietta dal viso rugoso, che, lasciato il telaio, si era alzata e curiosava apertamente dandosi appena un contegno col fare finta di spazzare il marciapiede.
Colsi l’occasione.
- Scusi tanto, ma la signorina Anna non abita qui?
Mi guardò allocchita, poi si avvicinò, sostenendo i suoi passi malfermi con la scopa.
- Comu rici? Ripitissi pi favuri. Aveva occhi azzurri e acquosi, uno dei quali ottenebrato da una cataratta.
- Sì, dicevo: stamattina ho lasciato la signorina Anna a casa sua e adesso dovevamo rivederci. Ma non abita qui?
- Nna sta casa nun ci sta chiù nuddu da sessant’anni.
- Ma se appena tre ore fa ho dato un passaggio a una ragazza di nome Anna e l’ho vista entrare coi miei occhi in questo portone!
Mi ha visto pure lei, ricorda? Stava seduta al telaio lì di fronte e ci guardava.
- Sintissi giuvini: veru è chi stamatina la taliavu quannu si firmà cca, ma lu sapi picchì? Picchì mi paria – cu rispettu parrannu – un foddi chi parrava sulu.
- Ma come sarebbe? Parlavo solo? Non ha visto la ragazza? Possibile che abita qui e lei non conosce Anna? Mi stavo spazientendo con quella vecchia bacucca.
Per un attimo sembrò rianimarsi, scuotersi.
- Scusassi, ma comu rici chi si chiamava sta picciuttedda?
- Anna si chiama.
Il suo occhio limpido si fece più attento e fisso. Tornò a scrutarmi dalla testa ai piedi e poi all’inverso dai piedi alla testa. Mi dava ai nervi. Le mani ossute, piene di vene varicose le tremavano. Aveva il Parkinson.
- Attintassi: veru sessant’anni narré cca ci stava na signurina chi si chiamava Anna. Na bedda signurina: stavamu tuttu u jornu nsemula, aviamu crisciutu comu soru di quann’eramu picciriddi, chi ghiucavamu cu i bamboli ncapu stu scaluni; picchì la so casa era a tuccari cu chidda me. Ma poi idda murìu. Muriu di disgrazia: si lassò moriri nnu lettu p’amuri d’un picciottu.
Restai interdetto. Un brivido mi corse dietro la schiena. Non saprei dire perché. Forse per la situazione surreale, e forse perché la vecchia continuava a lanciarmi sguardi in modo morboso.
- Mi ricissi natra cosa picciottu, – la vecchia si appoggiò al mio braccio e, ingobbita, mi scrutò da sotto in su col suo occhio sano, azzurro più che mai, avvicinandosi in modo spaventoso – ma lei comu si chiama?
- Giuseppe.
- Ah mu mmagginavaa, ebbe come un sorrisetto d’oltretomba, ma era innocua. Poverina doveva essere mezza tocca per via del Parkinson.
- Ma perché mi continua a guardare così, signora? Che fa mi conosce?
- Certu ca ti canuscivu! All’iniziu mi meravigghiavu assai, taliannuti e ritaliannuti, ma ormai sugnu vecchia e naiu vistu troppi cosi pi meravigghiarimi ancora. Ormai haiu chiù cunfirenza cu i morti chi cu i vivi. Aspettu sulu chi u Signuri m’arricogghi puru a mia.
Accussì perciò turnasti! Ta vinisti a pigghiari?
Ciò detto si fece la croce tre volte di seguito. Una lacrima le scivolò sulla guancia. Era del tutto evidente che mi scambiava con qualcun’altro e che al contempo fosse del tutto andata con la testa. Probabilmente alternava momenti di lucidità a momenti di obnubilamento. Dalle nostre parti la gente comune non va tanto per il sottile distinguendo negli anziani la pazzia, l’estrema vecchiezza, la perdita di memoria, l’Alzheimer, il morbo di Parkinson. Si usa dire che perdono colpi, che hanno l’arterii scurusi, l’arteriosclerosi, facendo di tutta l’erba un fascio. Questa era combinata così, non c’era dubbio. Ciò nonostante sperando mi desse una dritta per ritrovare Anna le diedi ancora corda.
- Sì, signora, sono venuto a prendere Anna. Ma non abita davvero qui? O in un altro portone? Sembra tutto disabitato il cortile…
- Ca certu ca stava cca. T’aspittà finu a la morti, t’aspittà. T’aspittà eternamenti.
- Mi racconti signora.
Riattaccò a parlare con la sua voce melodica e quasi in falsetto.
- E chi te cuntari a tia? So patri era troppu tintu cu idda, ed eranu puru autri tempi. Quannu u patri ricìa no era no. Annuzza era però un ancilu e l’ancili arraggiunanu megghiu cu i cieli ca cu l’omini. Perciò quannu so patri la nchiusi a chiavi rintra a so stanza, idda si curcau e dissi chi si un putia avillu nta sta terra allura l’avissi avutu ntall’atra terra, ncelu. Si fici a cruci e dissi: sia fatta a volontà di Diu. Un vosi chiù manciari. Avogghia a matri di priarla: nun ci fu chiù nenti di fari. A picciuttedda si lassò moriri ricennu ca senza iddu nun putìa chiù campari e chi si so patri nun vulìa, macari c’era speranza ca vulìa u Patri eternu. Annuzza accussì iu narrè narrè comu u curdaru. Puru iu ci ia ogni ghiornu o capizzu du lettu a cunsularla, ma idda ripitìa sempri a stessa musica. Aspittava a iddu e dicìa ca u destinu era destinu. Doppu tri misi murìu. Era bedda di moriri puru nno lettu di morti.
- Ma il ragazzo non fece niente?
- U picciottu si scantau di minacci du patri chi era ntisu assai a u paisi d’Arcamu. E accussì pi scurdarisilla fici i valiggi e partiu a vuscarisi u pani dda ncapu. Poi urtimamenti ncuntrai a so soru o cimiteru e mi rissi ca muriu puru. Mancu iddu si maritau chiù; signali ca nun ci arriniscì a scurdarisilla, ma nun turnà chiù o paisi.
Ora ti ricanuscivu Giuseppi: tardu vinisti a pigghialla, un ci sta chiù nuddu cca. A casa però idda è, giustu ta ricordasti. Ma sa vo viriri agghiri o primu cimiteru.
Ero frastornato e contrariato. Quella vecchia pazza mi toccava il viso, mi stringeva le mani. Nauseato mi liberai dalle moine della stolida. Ridetti un ultimo sguardo alla casa desolatamente abbandonata e corsi subito in macchina. Mi girava la testa. Vaffanculo, pensai. Lasciai quel luogo in fretta, come fuggendo, non so neanche io da cosa. Ma l’oppressione non mi aveva abbandonato. Non era per la giacca, di cui in fondo non mi importava un fico secco. Sentivo l’angoscia all’altezza dello sterno. La strada scendeva al di sotto della biviratura nel cui slargo ebbi il tempo di notare due bambini con i vestiti sporchi di fango che si accanivano a insudiciare un povero handicappato dalla testa enorme. Idrocefalo. Accelerai. Basta. Tirai un lungo sospiro. Imboccai la strada di contrada San Gaetano e in breve mi ritrovai all’altezza del primo cimitero. Dopo la curva, lungo il rettilineo che porta al secondo cimitero, ero nel punto esatto dove avevo visto Anna la prima volta. Ebbi in un lampo un’ultima tentazione. Frenai. Un automobilista dietro – per poco non mi sbatteva – strombazzò il clacson stizzito e superandomi fece ripetutamente il gesto di toccarsi la tempia con un dito. Feci inversione e dopo cento metri posteggiai nella stradina laterale di ingresso al primo cimitero. Era l’antivigilia della festa dei morti. Entrai. Qui una pace assorta sommergeva ogni cosa. Il temporale aveva lavato le stradine interne e le lapidi. Ristagnava un odore penetrante di terra umida misto a fiori in putrefazione. Due vecchiette armeggiavano con secchi e stracci a pulire una sepoltura. Una giovane vedova in lutto stretto fissava la foto del marito morto da poco e dondolava impercettibilmente il busto. Ecco il custode del cimitero a fianco di una moto l’ape a tre ruote. Scendeva delle corone di fiori e le posava presso il muro della camera mortuaria dove gli ultimi uomini di un corteo funebre ancora si attardavano dopo la cerimonia e l’accompagnamento di un defunto. Si vedeva dentro l’angusta camera la bara di legno lucido con i manici laterali in ottone e una grande croce sopra. Alla spicciolata gli ultimi rimasti si facevano la croce, salutavano e andavano via. Non sapevo neanche cosa esattamente cercassi, ma continuai a vagare per il cimitero che era molto vasto, antico e con vetuste cappelle, statue e monumenti d’ogni genere, anche di pregevole fattura. C’erano cappelle gentilizie in stile arabo, normanno, neoclassico. Stele di marmo travertino, croci, santi, obelischi. Vidi innumerevoli foto di defunti, lessi altrettanto innumerevoli epitaffi ed iscrizioni devozionali. Forse sentii la campanella che annunciava l’imminente chiusura del cimitero, ma non vi feci caso e non mi affrettai all’uscita.
Continuai a girovagare tra le lapidi e i monumenti.
Entrai nelle chiese, passai in rassegna gli avelli, scesi a un certo punto nei colombari, cioè nelle catacombe sotterranee dei defunti più poveri, sepolti uno sopra l’altro in muri altissimi di corridoi bui e fetidi.
Le candele rossastre proiettavano ombre inquietanti alle pareti e i visi delle foto al danzare della fiamma sembravano sinistramente rianimarsi.
Persi la cognizione del tempo.
Adesso era piena notte. Il cielo era di un blu terso e la volta delle stelle era bellissima sopra la mia testa.
Alla pallida luce di una luna piena stranamente vicina, al suono dei grilli, al luccicare delle lucciole e dei fuochi fatui che fuoriuscivano dalle fenditure delle lapidi più vecchie ormai erbose, vagai senza pensieri.
Ululati di cani ogni tanto si inseguivano perdendosi nella lontananza di contrade di campagna.
Non so a che ora precisa della notte fu che qualcosa attirò la mia attenzione, risvegliandomi dal narcotizzante deambulare.
Mi sembrava una sagoma in piedi ed ebbi paura. Mi accorsi che invece era qualcosa di scuro che pendeva da una lapide. Mi avvicinai lentamente.
Con grande stupore notai che era la mia giacca.
La giacca che avevo usato per coprire le spalle tremanti di Anna.
Mi avvicinai ancora di più e guardai la tomba. Nella foto riconobbi Anna.
Era vestita esattamente come l’avevo vista poche ore prima. Riconobbi tutto, compreso il neo nella guancia. Rimasi stupefatto dalla rivelazione.
Avevo dunque incontrato un fantasma.
Ero impietrito, incapace di muovermi, di prendere qualsiasi decisione. Non riuscivo a capacitarmi di quello che mi era avvenuto.
Pensavo, cercavo di mettere in ordine i miei pensieri senza riuscirvi. Erano una matassa ingarbugliata.
Perché il fantasma si era manifestato proprio a me? Era Anna che mi aveva attirato alla sua tomba guidando segretamente i miei pensieri? Che voleva da me il fantasma? Il viso della foto sembrava vivo e sorridermi dolcemente.
Ebbi paura.
Sconvolto voltai le spalle e mi avviai risoluto alla ricerca dell’uscita.
Finalmente mi ero risvegliato dal torpore e stavo vincendo il lugubre incantesimo. Ecco lì in fondo il cancello principale. Accelerai il passo.
Dovevo scavalcare e salvarmi da quell’atmosfera opprimente.
Raggiunsi il cancello di corsa. Feci per scavalcare ma, mio Dio: appena afferrai le sbarre per darmi lo slancio e salire in piedi mi accorsi che il mio corpo poteva attraversare il cancello chiuso senza nessuna opposizione.
Mi accorsi che non avevo più un corpo materiale. Potevo entrare e uscire dal cancello chiuso perché ero fatto di spirito!
Capii in quel momento che ero morto e che la vecchia del quartiere di Santu Vituzzu non era affatto pazza.
venerdì 18 settembre 2009
fiala di siero 146. Tratto da Pen-sieri (libro inedito personale)
146.
E’ ormai piena notte ma continuo a indugiare tra i vicoli di Erice. Un dedalo inestricabile di venuzze e capillari delimitato da muri di pietre a secco e chiese sbilenche e consunte. Improvvisamente, come avviene spesso in questa cittadina, la nebbia cala e avvolge ogni cosa. Proseguo indolente, ipnotizzato dal corso dei pensieri e dal calpestio delle mie suole di cuoio. Amo perdermi nell’osmosi dei bronchioli di stradine acciottolate, scale, cortili, curvature, patii, chiostri, balaustre, vedute abissali fin giù a Trapani, alle saline, al mare sinuoso, alle isole Egadi; godermi il cielo nero, profondo, trapuntato di stelle luccicanti, lo sciame della Via Lattea. Ma ora la nebbia mi consente di vedere solo ciò che lambisco. A volte chiudo gli occhi e mi lascio accarezzare dal vento e dai suoni della notte. I lampioni illuminano piccole chiazze lattescenti di nebbia che si avviluppa su se stessa. Costeggio un cimitero ebraico con le tombe sconnesse, le lapidi mezze divelte. Non credevo che a Erice ve ne fosse uno. Entro dentro il cimitero, indugio sulle calligrafie di iscrizioni ebraiche che non so decriptare. Cammino oltre. Sono catturato da ogni cosa che percepisco, gustandola come fosse un’apparizione stupefacente. Senza accorgermene sono finito del tutto fuori mano. Ogni tanto sbucano dalla nebbia figure che un attimo dopo sono inghiottite nuovamente nell’impalpabilità biancastra: un uomo con baffetti spioventi, azzimato nel suo vestito stretto, si appoggia a un bastone nero laccato con punta d’oro e manico d’avorio a forma di teschio; nebbia; una coppia di anziani coniugi, forse centenari; nebbia; un cane con la coda in mezzo alle gambe, preannunciato dal ritmico tocco delle sue unghie sul marmo, mi scansa con un guaito, lanciandosi in un’accelerazione; nebbia; una donna in abito da sera di seta bianca (caschetto a scalare di biondi capelli) si accende una sigaretta all’estremità di un lungo bocchino d’argento; nebbia; un bambino – o un nano? – in calzoncini corti; nebbia; un prete con un cappello a falde larghe e la tunica nera; nebbia; una carrozza trainata da un cavallo con le ruote che cigolano. Nitrisce. Il suono degli zoccoli si smorza lentamente. Nebbia. Rintocca una campana da un alto campanile. Nebbia. Un pipistrello – che come me ha perso l’orientamento – quasi mi fa cadere il cappello. Mi sono perduto. Vago a una certa ora della notte per il bosco di Erice. Latrati di cani si rincorrono nelle lontane contrade della campagna. I grilli intonano il solito concerto di fischi. Sento dentro la nebbia a una distanza indefinibile scoppi di risa, brandelli di conversazioni, fitti sussurri. Non so individuare che poche insensate parole. Sarà un’allegra brigata di giovani che fanno le ore piccole. Non riesco a capire né dove sono né quanto tempo sia passato. Forse un’ora, forse due, ma ho la sensazione – come un sospetto – di camminare da un tempo infinito. Mi siedo su una roccia, respiro: seguo le mie espirazioni confondersi con la nebbia in spirali fumose. Mi accorgo di essere gomito a gomito con una coppia, credo staccatasi dal gruppo: si baciano appassionatamente.
La nebbia li rende diafani come una parvenza.
Lei si gira a fissarmi. Avvicina la testa fino a toccare la mia fronte e scruta, scruta a lungo. Poi inquieta dice al suo innamorato:
“Ma non hai anche tu l’impressione che ci sia qualcuno accanto a noi?”.
“Ma no, che dici”, risponde il giovanotto.
“Eppure potrei giurare di aver visto come il fiato di un uomo che faceva mulinare la nebbia, proprio qui accanto a me!”.
Trattengo il respiro, il giovane allunga le mani proprio nel punto esatto dove sono io. Le sue braccia, pur cingendomi, attraversano il mio corpo senza toccarmi. Rimango allocchito.
“Non vedi che non c’è che nebbia? E chi credi ci sia un fantasma? Vieni qui, sciocchina!”.
E ricominciano a baciarsi.
Spariscono in una densa folata di nebbia.
Io o loro?
Urlo: “Chi di noi è il fantasmaaa?”.
Nessuno risponde.
Nebbia e ancora nebbia.
E’ ormai piena notte ma continuo a indugiare tra i vicoli di Erice. Un dedalo inestricabile di venuzze e capillari delimitato da muri di pietre a secco e chiese sbilenche e consunte. Improvvisamente, come avviene spesso in questa cittadina, la nebbia cala e avvolge ogni cosa. Proseguo indolente, ipnotizzato dal corso dei pensieri e dal calpestio delle mie suole di cuoio. Amo perdermi nell’osmosi dei bronchioli di stradine acciottolate, scale, cortili, curvature, patii, chiostri, balaustre, vedute abissali fin giù a Trapani, alle saline, al mare sinuoso, alle isole Egadi; godermi il cielo nero, profondo, trapuntato di stelle luccicanti, lo sciame della Via Lattea. Ma ora la nebbia mi consente di vedere solo ciò che lambisco. A volte chiudo gli occhi e mi lascio accarezzare dal vento e dai suoni della notte. I lampioni illuminano piccole chiazze lattescenti di nebbia che si avviluppa su se stessa. Costeggio un cimitero ebraico con le tombe sconnesse, le lapidi mezze divelte. Non credevo che a Erice ve ne fosse uno. Entro dentro il cimitero, indugio sulle calligrafie di iscrizioni ebraiche che non so decriptare. Cammino oltre. Sono catturato da ogni cosa che percepisco, gustandola come fosse un’apparizione stupefacente. Senza accorgermene sono finito del tutto fuori mano. Ogni tanto sbucano dalla nebbia figure che un attimo dopo sono inghiottite nuovamente nell’impalpabilità biancastra: un uomo con baffetti spioventi, azzimato nel suo vestito stretto, si appoggia a un bastone nero laccato con punta d’oro e manico d’avorio a forma di teschio; nebbia; una coppia di anziani coniugi, forse centenari; nebbia; un cane con la coda in mezzo alle gambe, preannunciato dal ritmico tocco delle sue unghie sul marmo, mi scansa con un guaito, lanciandosi in un’accelerazione; nebbia; una donna in abito da sera di seta bianca (caschetto a scalare di biondi capelli) si accende una sigaretta all’estremità di un lungo bocchino d’argento; nebbia; un bambino – o un nano? – in calzoncini corti; nebbia; un prete con un cappello a falde larghe e la tunica nera; nebbia; una carrozza trainata da un cavallo con le ruote che cigolano. Nitrisce. Il suono degli zoccoli si smorza lentamente. Nebbia. Rintocca una campana da un alto campanile. Nebbia. Un pipistrello – che come me ha perso l’orientamento – quasi mi fa cadere il cappello. Mi sono perduto. Vago a una certa ora della notte per il bosco di Erice. Latrati di cani si rincorrono nelle lontane contrade della campagna. I grilli intonano il solito concerto di fischi. Sento dentro la nebbia a una distanza indefinibile scoppi di risa, brandelli di conversazioni, fitti sussurri. Non so individuare che poche insensate parole. Sarà un’allegra brigata di giovani che fanno le ore piccole. Non riesco a capire né dove sono né quanto tempo sia passato. Forse un’ora, forse due, ma ho la sensazione – come un sospetto – di camminare da un tempo infinito. Mi siedo su una roccia, respiro: seguo le mie espirazioni confondersi con la nebbia in spirali fumose. Mi accorgo di essere gomito a gomito con una coppia, credo staccatasi dal gruppo: si baciano appassionatamente.
La nebbia li rende diafani come una parvenza.
Lei si gira a fissarmi. Avvicina la testa fino a toccare la mia fronte e scruta, scruta a lungo. Poi inquieta dice al suo innamorato:
“Ma non hai anche tu l’impressione che ci sia qualcuno accanto a noi?”.
“Ma no, che dici”, risponde il giovanotto.
“Eppure potrei giurare di aver visto come il fiato di un uomo che faceva mulinare la nebbia, proprio qui accanto a me!”.
Trattengo il respiro, il giovane allunga le mani proprio nel punto esatto dove sono io. Le sue braccia, pur cingendomi, attraversano il mio corpo senza toccarmi. Rimango allocchito.
“Non vedi che non c’è che nebbia? E chi credi ci sia un fantasma? Vieni qui, sciocchina!”.
E ricominciano a baciarsi.
Spariscono in una densa folata di nebbia.
Io o loro?
Urlo: “Chi di noi è il fantasmaaa?”.
Nessuno risponde.
Nebbia e ancora nebbia.
mercoledì 28 gennaio 2009
Fiala di siero n°136
L'ultima cena 136.
Sono seduto a un tavolo. Il tavolo è così lungo che non riesco a vedere né a udire la persona che è seduta all’altro capo del tavolo. Ho subito pensato, chissà perché, che lo scopo è quello di mangiare e credo tutt’ora che prima o poi arriverà il primo piatto. Non so chi è il mio commensale all’altro capo del tavolo, o se piuttosto non sia io il commensale invitato. Non potrei stabilirlo perché non mi ricordo in quale casa sono. A rigore non potrei dire neanche che sia un pranzo. Potrebbe essere un colloquio. Sembra sicuro che all’estremità del tavolo debba esserci qualcuno. Ma è poi sicuro davvero? Chi può garantirlo? E se non c’è nessuno? Un’idea balzana per un attimo mi seduce: che sia un’ultima cena? E se fosse solo una mia predisposizione d’animo questa certezza di stare insieme a qualcuno? Potrebbe trattarsi di un ricevimento per un’udienza. Forse sono dentro a un carcere? Sì ma perché non debbo vedere con chi parlo? Forse la natura della persona con la quale devo parlare è troppo superiore alla mia? E non mi è dato di vederla? Di contemplarla? Possibile si possa trattare di un colloquio con il mio angelo custode? Con il mio giudice? Oppure con San Pietro davanti alle porte del cielo? Può essere che sia addirittura Dio in persona? Questa ultima conclusione mi sembra molto improbabile e narcisistica: perché Dio in persona dovrebbe parlare con me? Con me: un insignificante essere senza fede e pieno di peccati, di difetti! E poi chi dice che Dio esiste? Potrebbe essere Satana? O un suo lontano emissario? Ma anche Satana forse non esiste affatto. Sì, il bene e il male, va bene, ma perché pensare al Bene o al Male? Potrebbe darsi che il mio interlocutore non faccia parte della cultura umana, o, anche facendone parte, può essere che per lui le espressioni bene e male siano del tutto prive di significato. Le categorie potrebbero essere giusto e ingiusto, oppure bello e brutto, o alto e basso, o maschio e femmina, o pari e dispari, o buio e luminoso, o sostanza e accidente, o necessario e contingente, assoluto e relativo, o uno e due, finito e infinito, o qualsiasi altra cosa non pensabile dalla mente umana. Un extraterrestre? Potrebbe anche trattarsi di una cosa sola, di un’entità che non ha distinzione perché tutto ingloba. O con la distinzione ma dentro una unità. Può darsi infatti che tutti gli universi facciano parte di un solo organismo. Tornando alla stanza e al tavolo, non riesco nemmeno a stabilire se siamo di giorno o di notte, di mattina o di pomeriggio. Infatti sul lungo tavolo di legno c’è una luce diffusa un po’ cerulea, tenue; tale da poter essere sia una luce dell’alba, sia una luce del crepuscolo, sia una luce lunare, oppure una luce tisica di una di quelle grigie giornate invernali. Anche una luce al neon bluastro di una camera mortuaria. E, al contrario, potrebbe persino essere una luce estiva di solleone; solo che il tavolo potrebbe non essere vicino direttamente a un’apertura esterna. Sì, è vero, vedo una grande finestra con vetrata: ma chi mi dice che non dia in un’altra stanza a sua volta con un’altra finestra? Non riesco a vedere fuori da qui e una penombra diafana mi avvolge in tutte le direzioni. Comunque ammesso che sia in compagnia di qualcuno – che non faccia cioè parte della mia suggestione – : cosa dovrebbe dirmi questo qualcuno? O cosa dovrei dire io a lui? Chi ha convocato chi e per dire cosa? Meglio stare zitto e aspettare gli eventi. Ma fino a che punto mi conviene questa tattica? Magari sarebbe più semplice alzarmi e andarmene. E se davvero al capo del tavolo ci fosse Dio io che faccio mi alzo e me ne vado voltando le spalle a Dio? Ma poi andare dove? Non può essere invece proprio che tutto il mio cammino sia stato volto a questo tavolo, a questo incontro? Che tutta la mia esistenza e perfino tutto il karma delle mie esistenze presenti passate e future non preveda questo? E se mi alzo non lo torni a prevedere magari fra centinaia e centinaia di esistenze? Infatti ho una sensazione fortissima di déjà vu. Ecco, rifletto, il perché del mio dèjà vu: se mi alzo sono sicuro che tornerò prima o poi – e forse non è la prima volta che lo vivo – a vivere questo istante esattamente come in questo istante. Mi viene anzi il sospetto che non possa materialmente alzarmi. Meglio non provare. Devo comunque valutare bene prima di alzarmi o restare, non vorrei fare una scelta sconclusionata. Ma poi perché andare via? Io non ricordo perché sono venuto qui e dopotutto questa potrebbe essere la mia casa. Non ricordo nemmeno se sono venuto qui o se sono sempre stato qui, fermo dall’eternità. Non saprei dove andare e se sono arrivato qui vuol dire che questo posto deve rivelarmi qualcosa. E’ un tavolo di legno molto vecchio, pieno di graffi e liso, con qualche buco che attesta presenza di termiti. E’ evidentemente un tavolo secolare e in questo tavolo molti avranno appoggiato le mani, i gomiti, mangiato, bevuto. Mi giro intorno: in tutta la casa aleggia come una nebbiolina e non vedo altra mobilia, eccezion fatta per un lungo orologio a pendolo a muro il cui quadrante sembra emergere dalla nebbia di una stazione ferroviaria. E’ un orologio vetusto. Il pendolo continua ad oscillare lento e solenne ma una delle grandi lancette è divelta e caduta alla base dello schermo di vetro bombato, e evidentemente non è mai stata aggiustata. E’ la lancetta delle ore e quindi è impossibile stabilire l’ora. Le grandi vetrate delle finestre ora sono appannate e rigate di pioggia. Tintinnano. Sembrerebbe di poter concludere che quindi si affaccino fuori e che fuori piove, ma non mi sento di poter stabilire con certezza nemmeno questo. Infatti ho detto che nella stanza aleggia una nebbia e dal mio posto non posso stabilire se le gocce sono interne o esterne al vetro. In ogni caso considero sconveniente alzarmi in questo momento per andare a verificare. Il tintinnio dei vetri inoltre potrebbe essere dato da una qualche vibrazione sonora anche interna. La grande vetrata potrebbe dare in un’altra grande stanza o in un chiostro. Anche se è alquanto remoto che qualcuno costruisca una grande vetrata che dia semplicemente in un’altra stanza, pure la cosa non è esclusa del tutto. Potrebbe infatti anche darsi che la casa si sia espansa successivamente con altre superfetazioni e altre stanze e che la grande vetrata sia stata lasciata dov’era. Tutto è importante considerare e niente escludere a priori. La presenza della nebbia nella grande stanza potrebbe essere dovuta all’umidità, all’escursione termica, al vapore di qualche cucina non lontana. So solo di trovarmi in questa casa, seduto in un lungo tavolo di una stanza avvolta dalla nebbia. Con un brivido penso alla possibilità che io sia in realtà morto e che mi trovi qui come in un territorio di mezzo in attesa della mia destinazione nell’aldilà. Può essere che la mia destinazione dell’aldilà sia in realtà proprio questa, cioè lo stare seduto a questo tavolo per l’eternità e continuare a pensare all’infinito. Forse dovrei essere io il primo a profferire parola? Magari per vedere se c’è qualcuno nell’altro capo del tavolo. Veramente un eventuale silenzio di risposta non dimostrerebbe che non ci sia nessuno ma solo che se anche c’è qualcuno questo qualcuno non mi risponde. Magari ritenendo inopportuna la mia impazienza e la mia insolenza. Mi conviene cercare di resistere quanto più possibile ed aspettare in silenzio. Una sentenza del tao dice: “Chi sa non parla, chi parla non sa”. Così resto in silenzio, anche se il mio silenzio non significa che io sappia qualcosa, perché, come ho detto, non so assolutamente nulla. Nondimeno aspetto e valuto. Certo ogni soluzione è rischiosa e anche non parlare e non fare nulla, benché sia la meno rischiosa. Infatti può essere che dall’altra parte chi – sempre che ci sia – è seduto aspetti una mia parola e il fatto che io resti inane può danneggiare la mia situazione. Può essere che io abbia una grave colpa e che su di me si stia per pronunciare una condanna o un’assoluzione. Dunque devo difendermi o potrei essere condannato subito con l’aggravante dell’accidia o dell’ignavia del mio silenzio. Ma difendermi da cosa? E difendermi non equivale ad ammettere di essere accusato di una colpa? La difesa, comunque, non avendo elementi di nessun genere, è la cosa più giusta da fare; e la migliore difesa implica il non fare la prima mossa. Sì, devo solo difendermi: aspettare e rispondere con contromosse. Infatti attaccare senza conoscere l’avversario, la sua forza, equivarrebbe a una mossa avventata che non potrebbe che portare a una più probabile sconfitta. Inizio a ispezionare il tavolo. La sua superficie è vetusta, come dicevo, piena di graffi. Vedo che ci sono dei segni che sembrano barrette parallele, come quando nei carceri duri si segnano i giorni per orientarsi scavando con una punta solchi nel muro buio. Quindi credo che anche altri prima di me siano passati da questo tavolo. E abbiano aspettato – come me senza parlare né alzarsi – giorni e forse mesi. Infatti le barrette sono molte, sempre che il loro significato sia questo. Può darsi invece che siano solo segni casuali di un tavolo casualmente segnato dal tempo. Di quale colpa mi si può accusare? Certo vivendo ho commesso tanti errori. Ma gli errori sono colpe? E se anche fossero colpa la colpa è evitabile? Chi stabilisce una colpa? Gli errori li stabiliamo noi stessi e noi stessi le colpe in base al nostro giudizio? O devo pensare che ci sia un giudizio superiore e oggettivo? Un giudice supremo? Vivendo ho commesso gravi errori, sono stato vigliacco, ipocrita, recidivo, infedele, poco umano, poco generoso, egoista, pettegolo. Anche da me so giudicarmi e in base ai miei stessi valori. Certo ho forse combinato anche qualcosa di buono, credo di essere stato sensibile, riflessivo, profondo ma quasi mai ho messo in pratica le mie intuizioni e i miei convincimenti. Come un albero forte che però non ha dato frutti. Può darsi che il mio giudizio sia troppo duro e che abbia vissuto invece una vita normale come quella di tutti gli altri con i suoi alti e i suoi bassi. E può darsi che i frutti migliori di quest’albero della vita siano proprio i dubbi, le contraddizioni. Ma poi perché parlo al passato come se fossi morto e davvero dovessi rendere conto a qualcuno del bilancio della mia vita? Una parte di me pensa che ogni giorno avrei dovuto immaginare di essere a questo punto, ogni giorno della mia vita, e così agire con la dovuta fermezza. Ora invece non so proprio cosa fare. Ogni giorno in cui pensavo di cambiare vita e di essere più profondo e autentico rimandavo sempre. Ora mi accorgo di aver rimandato fino a quando non c’è stato più niente da fare; di aver sciupato la mia vita nel tran tran quotidiano delle non scelte. E mi ritrovo come sempre a tentare di scacciare anche l’evidenza di questa situazione. Spero infatti ancora di potermi svegliare e scoprire di aver fatto un incubo. Mi do un pizzicotto fortissimo nell’interno della coscia sinistra, sotto il tavolo. Non mi sveglio. Riesco non di meno a mantenermi freddo e a resistere a non parlare e a non alzarmi. Comunque non sono spirito altrimenti il pizzicotto non mi avrebbe fatto male. Ho ancora un corpo? Oppure dopo morti si mantiene la capacità di rapportarsi a un corpo e di provare dolore o piacere come se il corpo ci fosse ancora? Ho sentito dire di mutilati di guerra che provano ancora dolore nell’arto che non hanno più. Ma qual è la differenza tra morto e vivo? E tra sveglio e sognante? Mi chiedo poi se il giudizio e la colpa debbano per forza rapportarsi al bene e al male fatto durante la vita. E se non ci fosse affatto alcun giudizio? E se noi fossimo tarati al bene e al male solo per una nostra forma mentis voluta dal potere dominante per irreggimentare le coscienze? Comunque mi torna sempre in testa il tavolo come associato al cibo. E – come ho detto in precedenza – se fosse davvero il tavolo dell’ultima cena? E io fossi Giuda in persona tornato al tavolo per dirimere con Gesù Cristo la questione se fui ab eterno predestinato a tradirlo? Se io potei avere scelta? Se in realtà io non fossi un prescelto, un predestinato, da sacrificare per il compito più ingrato, arduo e nobile come il tradimento di Cristo? Mi chiedo se si può scegliere di peccare o se si è predestinati a peccare; se Giuda fu predestinato prima di nascere o fu scelto per i suoi meriti al grande compito di tradire. Ma poi se esiste la verità eterna dall’eternità ciò non implica che la più grande missione di verità sia tradire la verità? Sia cioè minare questo dittatoriale immobilismo chiamato eternità? Satana dunque fu un cercatore di verità? Il tradimento inoltre non verifica proprio che c’è una verità? Se la verità non si tradisce come può essere appurata? Può esistere la verità senza la necessità della falsità? Si può arrivare alla verità, alla sua consapevolezza, senza passare dalla consapevolezza della falsità? Come potrebbe distinguersi? Come la verità potrebbe essere il fine se non fossimo dentro la falsità? Quindi potrebbe essere ancora l’ultima cena tra me e Cristo? Tra me e Dio? Dopotutto non ci si siede a un tavolo per mangiare? Ma può darsi che si tratti di una cena galante e magari tutti questi ansiosi problemi sono solo tormenti senza senso di un ipocondriaco. Magari adesso si materializza una donna in serici veli che si esibisce in una sensuale danza del ventre, chissà. Mi godo questa nebbia e quest’atmosfera sospesa. Fuori forse imperversa un temporale. Ogni tanto le vetrate si illuminano di bluastri bagliori. Gocce cadono dalle alte soffitte della stanza e creano una sorta di amplificazione polifonica come dentro a una grotta. Non c’è freddo, anzi sembra che un certo tepore si diffonda da qualche luogo. Non è improbabile che un camino stia ospitando un fuoco. L’orologio continua a essere rotto e nebbioso e io aspetto, aspetto senza stancarmi. Sono ormai passati giorni e notti. Non riesco a capire da quanto stia seduto in questo tavolo ad aspettare. Forse un minuto, forse un anno, forse la vita intera, forse l’eternità. E’ possibile che chi doveva arrivare sia arrivato e se ne sia andato senza che io l’abbia scorto. E’ vero non ho sentito alcun rumore rilevante, ma questo non prova niente. Il tavolo è talmente lungo che non posso inferire quanto sia lunga la camera e ad una certa distanza non sentirei certamente alcun rumore di passi. E se fossi sottoterra? Dentro la bara? E se il legno è la copertura interna della bara e il resto semplicemente lo stia immaginando? Ma che pensieri lugubri! Preferisco pensare altro. Ora mi metto a ripassare tutti i baci che ho dato in vita mia. Però devo considerare le ipotesi meno vantaggiose per me, così che non mi trovi impreparato a doverle affrontare. Ma ecco che sento finalmente un rumore di passi. Un’ombra si staglia dietro la vetrata e si dirige verso un’apertura di fronte a me. Ecco che sento una porta lontana cigolare sui cardini. I passi ora sono dentro la stanza. Si stagliano con una presenza sonora molto più marcata. Dall’ombra informe si definisce una sagoma dal viso inespressivo che si ferma proprio davanti a me restando in piedi e fissandomi. Mi rendo conto che quella sagoma sono io stesso.
Sono seduto a un tavolo. Il tavolo è così lungo che non riesco a vedere né a udire la persona che è seduta all’altro capo del tavolo. Ho subito pensato, chissà perché, che lo scopo è quello di mangiare e credo tutt’ora che prima o poi arriverà il primo piatto. Non so chi è il mio commensale all’altro capo del tavolo, o se piuttosto non sia io il commensale invitato. Non potrei stabilirlo perché non mi ricordo in quale casa sono. A rigore non potrei dire neanche che sia un pranzo. Potrebbe essere un colloquio. Sembra sicuro che all’estremità del tavolo debba esserci qualcuno. Ma è poi sicuro davvero? Chi può garantirlo? E se non c’è nessuno? Un’idea balzana per un attimo mi seduce: che sia un’ultima cena? E se fosse solo una mia predisposizione d’animo questa certezza di stare insieme a qualcuno? Potrebbe trattarsi di un ricevimento per un’udienza. Forse sono dentro a un carcere? Sì ma perché non debbo vedere con chi parlo? Forse la natura della persona con la quale devo parlare è troppo superiore alla mia? E non mi è dato di vederla? Di contemplarla? Possibile si possa trattare di un colloquio con il mio angelo custode? Con il mio giudice? Oppure con San Pietro davanti alle porte del cielo? Può essere che sia addirittura Dio in persona? Questa ultima conclusione mi sembra molto improbabile e narcisistica: perché Dio in persona dovrebbe parlare con me? Con me: un insignificante essere senza fede e pieno di peccati, di difetti! E poi chi dice che Dio esiste? Potrebbe essere Satana? O un suo lontano emissario? Ma anche Satana forse non esiste affatto. Sì, il bene e il male, va bene, ma perché pensare al Bene o al Male? Potrebbe darsi che il mio interlocutore non faccia parte della cultura umana, o, anche facendone parte, può essere che per lui le espressioni bene e male siano del tutto prive di significato. Le categorie potrebbero essere giusto e ingiusto, oppure bello e brutto, o alto e basso, o maschio e femmina, o pari e dispari, o buio e luminoso, o sostanza e accidente, o necessario e contingente, assoluto e relativo, o uno e due, finito e infinito, o qualsiasi altra cosa non pensabile dalla mente umana. Un extraterrestre? Potrebbe anche trattarsi di una cosa sola, di un’entità che non ha distinzione perché tutto ingloba. O con la distinzione ma dentro una unità. Può darsi infatti che tutti gli universi facciano parte di un solo organismo. Tornando alla stanza e al tavolo, non riesco nemmeno a stabilire se siamo di giorno o di notte, di mattina o di pomeriggio. Infatti sul lungo tavolo di legno c’è una luce diffusa un po’ cerulea, tenue; tale da poter essere sia una luce dell’alba, sia una luce del crepuscolo, sia una luce lunare, oppure una luce tisica di una di quelle grigie giornate invernali. Anche una luce al neon bluastro di una camera mortuaria. E, al contrario, potrebbe persino essere una luce estiva di solleone; solo che il tavolo potrebbe non essere vicino direttamente a un’apertura esterna. Sì, è vero, vedo una grande finestra con vetrata: ma chi mi dice che non dia in un’altra stanza a sua volta con un’altra finestra? Non riesco a vedere fuori da qui e una penombra diafana mi avvolge in tutte le direzioni. Comunque ammesso che sia in compagnia di qualcuno – che non faccia cioè parte della mia suggestione – : cosa dovrebbe dirmi questo qualcuno? O cosa dovrei dire io a lui? Chi ha convocato chi e per dire cosa? Meglio stare zitto e aspettare gli eventi. Ma fino a che punto mi conviene questa tattica? Magari sarebbe più semplice alzarmi e andarmene. E se davvero al capo del tavolo ci fosse Dio io che faccio mi alzo e me ne vado voltando le spalle a Dio? Ma poi andare dove? Non può essere invece proprio che tutto il mio cammino sia stato volto a questo tavolo, a questo incontro? Che tutta la mia esistenza e perfino tutto il karma delle mie esistenze presenti passate e future non preveda questo? E se mi alzo non lo torni a prevedere magari fra centinaia e centinaia di esistenze? Infatti ho una sensazione fortissima di déjà vu. Ecco, rifletto, il perché del mio dèjà vu: se mi alzo sono sicuro che tornerò prima o poi – e forse non è la prima volta che lo vivo – a vivere questo istante esattamente come in questo istante. Mi viene anzi il sospetto che non possa materialmente alzarmi. Meglio non provare. Devo comunque valutare bene prima di alzarmi o restare, non vorrei fare una scelta sconclusionata. Ma poi perché andare via? Io non ricordo perché sono venuto qui e dopotutto questa potrebbe essere la mia casa. Non ricordo nemmeno se sono venuto qui o se sono sempre stato qui, fermo dall’eternità. Non saprei dove andare e se sono arrivato qui vuol dire che questo posto deve rivelarmi qualcosa. E’ un tavolo di legno molto vecchio, pieno di graffi e liso, con qualche buco che attesta presenza di termiti. E’ evidentemente un tavolo secolare e in questo tavolo molti avranno appoggiato le mani, i gomiti, mangiato, bevuto. Mi giro intorno: in tutta la casa aleggia come una nebbiolina e non vedo altra mobilia, eccezion fatta per un lungo orologio a pendolo a muro il cui quadrante sembra emergere dalla nebbia di una stazione ferroviaria. E’ un orologio vetusto. Il pendolo continua ad oscillare lento e solenne ma una delle grandi lancette è divelta e caduta alla base dello schermo di vetro bombato, e evidentemente non è mai stata aggiustata. E’ la lancetta delle ore e quindi è impossibile stabilire l’ora. Le grandi vetrate delle finestre ora sono appannate e rigate di pioggia. Tintinnano. Sembrerebbe di poter concludere che quindi si affaccino fuori e che fuori piove, ma non mi sento di poter stabilire con certezza nemmeno questo. Infatti ho detto che nella stanza aleggia una nebbia e dal mio posto non posso stabilire se le gocce sono interne o esterne al vetro. In ogni caso considero sconveniente alzarmi in questo momento per andare a verificare. Il tintinnio dei vetri inoltre potrebbe essere dato da una qualche vibrazione sonora anche interna. La grande vetrata potrebbe dare in un’altra grande stanza o in un chiostro. Anche se è alquanto remoto che qualcuno costruisca una grande vetrata che dia semplicemente in un’altra stanza, pure la cosa non è esclusa del tutto. Potrebbe infatti anche darsi che la casa si sia espansa successivamente con altre superfetazioni e altre stanze e che la grande vetrata sia stata lasciata dov’era. Tutto è importante considerare e niente escludere a priori. La presenza della nebbia nella grande stanza potrebbe essere dovuta all’umidità, all’escursione termica, al vapore di qualche cucina non lontana. So solo di trovarmi in questa casa, seduto in un lungo tavolo di una stanza avvolta dalla nebbia. Con un brivido penso alla possibilità che io sia in realtà morto e che mi trovi qui come in un territorio di mezzo in attesa della mia destinazione nell’aldilà. Può essere che la mia destinazione dell’aldilà sia in realtà proprio questa, cioè lo stare seduto a questo tavolo per l’eternità e continuare a pensare all’infinito. Forse dovrei essere io il primo a profferire parola? Magari per vedere se c’è qualcuno nell’altro capo del tavolo. Veramente un eventuale silenzio di risposta non dimostrerebbe che non ci sia nessuno ma solo che se anche c’è qualcuno questo qualcuno non mi risponde. Magari ritenendo inopportuna la mia impazienza e la mia insolenza. Mi conviene cercare di resistere quanto più possibile ed aspettare in silenzio. Una sentenza del tao dice: “Chi sa non parla, chi parla non sa”. Così resto in silenzio, anche se il mio silenzio non significa che io sappia qualcosa, perché, come ho detto, non so assolutamente nulla. Nondimeno aspetto e valuto. Certo ogni soluzione è rischiosa e anche non parlare e non fare nulla, benché sia la meno rischiosa. Infatti può essere che dall’altra parte chi – sempre che ci sia – è seduto aspetti una mia parola e il fatto che io resti inane può danneggiare la mia situazione. Può essere che io abbia una grave colpa e che su di me si stia per pronunciare una condanna o un’assoluzione. Dunque devo difendermi o potrei essere condannato subito con l’aggravante dell’accidia o dell’ignavia del mio silenzio. Ma difendermi da cosa? E difendermi non equivale ad ammettere di essere accusato di una colpa? La difesa, comunque, non avendo elementi di nessun genere, è la cosa più giusta da fare; e la migliore difesa implica il non fare la prima mossa. Sì, devo solo difendermi: aspettare e rispondere con contromosse. Infatti attaccare senza conoscere l’avversario, la sua forza, equivarrebbe a una mossa avventata che non potrebbe che portare a una più probabile sconfitta. Inizio a ispezionare il tavolo. La sua superficie è vetusta, come dicevo, piena di graffi. Vedo che ci sono dei segni che sembrano barrette parallele, come quando nei carceri duri si segnano i giorni per orientarsi scavando con una punta solchi nel muro buio. Quindi credo che anche altri prima di me siano passati da questo tavolo. E abbiano aspettato – come me senza parlare né alzarsi – giorni e forse mesi. Infatti le barrette sono molte, sempre che il loro significato sia questo. Può darsi invece che siano solo segni casuali di un tavolo casualmente segnato dal tempo. Di quale colpa mi si può accusare? Certo vivendo ho commesso tanti errori. Ma gli errori sono colpe? E se anche fossero colpa la colpa è evitabile? Chi stabilisce una colpa? Gli errori li stabiliamo noi stessi e noi stessi le colpe in base al nostro giudizio? O devo pensare che ci sia un giudizio superiore e oggettivo? Un giudice supremo? Vivendo ho commesso gravi errori, sono stato vigliacco, ipocrita, recidivo, infedele, poco umano, poco generoso, egoista, pettegolo. Anche da me so giudicarmi e in base ai miei stessi valori. Certo ho forse combinato anche qualcosa di buono, credo di essere stato sensibile, riflessivo, profondo ma quasi mai ho messo in pratica le mie intuizioni e i miei convincimenti. Come un albero forte che però non ha dato frutti. Può darsi che il mio giudizio sia troppo duro e che abbia vissuto invece una vita normale come quella di tutti gli altri con i suoi alti e i suoi bassi. E può darsi che i frutti migliori di quest’albero della vita siano proprio i dubbi, le contraddizioni. Ma poi perché parlo al passato come se fossi morto e davvero dovessi rendere conto a qualcuno del bilancio della mia vita? Una parte di me pensa che ogni giorno avrei dovuto immaginare di essere a questo punto, ogni giorno della mia vita, e così agire con la dovuta fermezza. Ora invece non so proprio cosa fare. Ogni giorno in cui pensavo di cambiare vita e di essere più profondo e autentico rimandavo sempre. Ora mi accorgo di aver rimandato fino a quando non c’è stato più niente da fare; di aver sciupato la mia vita nel tran tran quotidiano delle non scelte. E mi ritrovo come sempre a tentare di scacciare anche l’evidenza di questa situazione. Spero infatti ancora di potermi svegliare e scoprire di aver fatto un incubo. Mi do un pizzicotto fortissimo nell’interno della coscia sinistra, sotto il tavolo. Non mi sveglio. Riesco non di meno a mantenermi freddo e a resistere a non parlare e a non alzarmi. Comunque non sono spirito altrimenti il pizzicotto non mi avrebbe fatto male. Ho ancora un corpo? Oppure dopo morti si mantiene la capacità di rapportarsi a un corpo e di provare dolore o piacere come se il corpo ci fosse ancora? Ho sentito dire di mutilati di guerra che provano ancora dolore nell’arto che non hanno più. Ma qual è la differenza tra morto e vivo? E tra sveglio e sognante? Mi chiedo poi se il giudizio e la colpa debbano per forza rapportarsi al bene e al male fatto durante la vita. E se non ci fosse affatto alcun giudizio? E se noi fossimo tarati al bene e al male solo per una nostra forma mentis voluta dal potere dominante per irreggimentare le coscienze? Comunque mi torna sempre in testa il tavolo come associato al cibo. E – come ho detto in precedenza – se fosse davvero il tavolo dell’ultima cena? E io fossi Giuda in persona tornato al tavolo per dirimere con Gesù Cristo la questione se fui ab eterno predestinato a tradirlo? Se io potei avere scelta? Se in realtà io non fossi un prescelto, un predestinato, da sacrificare per il compito più ingrato, arduo e nobile come il tradimento di Cristo? Mi chiedo se si può scegliere di peccare o se si è predestinati a peccare; se Giuda fu predestinato prima di nascere o fu scelto per i suoi meriti al grande compito di tradire. Ma poi se esiste la verità eterna dall’eternità ciò non implica che la più grande missione di verità sia tradire la verità? Sia cioè minare questo dittatoriale immobilismo chiamato eternità? Satana dunque fu un cercatore di verità? Il tradimento inoltre non verifica proprio che c’è una verità? Se la verità non si tradisce come può essere appurata? Può esistere la verità senza la necessità della falsità? Si può arrivare alla verità, alla sua consapevolezza, senza passare dalla consapevolezza della falsità? Come potrebbe distinguersi? Come la verità potrebbe essere il fine se non fossimo dentro la falsità? Quindi potrebbe essere ancora l’ultima cena tra me e Cristo? Tra me e Dio? Dopotutto non ci si siede a un tavolo per mangiare? Ma può darsi che si tratti di una cena galante e magari tutti questi ansiosi problemi sono solo tormenti senza senso di un ipocondriaco. Magari adesso si materializza una donna in serici veli che si esibisce in una sensuale danza del ventre, chissà. Mi godo questa nebbia e quest’atmosfera sospesa. Fuori forse imperversa un temporale. Ogni tanto le vetrate si illuminano di bluastri bagliori. Gocce cadono dalle alte soffitte della stanza e creano una sorta di amplificazione polifonica come dentro a una grotta. Non c’è freddo, anzi sembra che un certo tepore si diffonda da qualche luogo. Non è improbabile che un camino stia ospitando un fuoco. L’orologio continua a essere rotto e nebbioso e io aspetto, aspetto senza stancarmi. Sono ormai passati giorni e notti. Non riesco a capire da quanto stia seduto in questo tavolo ad aspettare. Forse un minuto, forse un anno, forse la vita intera, forse l’eternità. E’ possibile che chi doveva arrivare sia arrivato e se ne sia andato senza che io l’abbia scorto. E’ vero non ho sentito alcun rumore rilevante, ma questo non prova niente. Il tavolo è talmente lungo che non posso inferire quanto sia lunga la camera e ad una certa distanza non sentirei certamente alcun rumore di passi. E se fossi sottoterra? Dentro la bara? E se il legno è la copertura interna della bara e il resto semplicemente lo stia immaginando? Ma che pensieri lugubri! Preferisco pensare altro. Ora mi metto a ripassare tutti i baci che ho dato in vita mia. Però devo considerare le ipotesi meno vantaggiose per me, così che non mi trovi impreparato a doverle affrontare. Ma ecco che sento finalmente un rumore di passi. Un’ombra si staglia dietro la vetrata e si dirige verso un’apertura di fronte a me. Ecco che sento una porta lontana cigolare sui cardini. I passi ora sono dentro la stanza. Si stagliano con una presenza sonora molto più marcata. Dall’ombra informe si definisce una sagoma dal viso inespressivo che si ferma proprio davanti a me restando in piedi e fissandomi. Mi rendo conto che quella sagoma sono io stesso.
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