sabato 27 dicembre 2008

numerate fiale ermetiche di siero

Caronte. Immagine di Dorè .
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Pensieri
sieridipenna




Fiala di siero 137.


137.1
Sono morto. Mi ritrovo in una stanza di un vecchio edificio con i muri gibbosi, macchie di muffa e calce bianca in parte scrostata. Non so come ci sono entrato, forse ho aspettato il turno. Forse il turno è stato la durata della mia vita. Fatto sta che sono solo in questa stanza troppo grande nella quale mi sento come nel deserto. Sono nudo e mi vergogno. Il silenzio mi avvolge, amplificato da gocce d’acqua che cadono dal soffitto e rintoccano dentro bacinelle già semipiene. Di fronte a me, molto distanti, due impiegati seduti a un tavolo. Dietro di loro un'imponente porta di legno che sovrasta la loro piccola scrivania. Uno dei due sbadigliando mi chiama per nome e cognome. Lo sbadiglio gli deforma il volto e il suono delle parole. Rimango fermo, esito. Allora allunga un braccio e dal pugno chiuso – con le nocche rivoltate verso l’alto – distende l’indice e poi lo richiude nel pugno. Sembra piuttosto una sorta di bidello o di portinaio annoiato delle sue mansioni. Baffettini abbassati, spioventi, misurati; i capelli oleosi con un temerario rivoltino tentano di coprire un’impietosa calvizie. Fronte piena di rughe parallele, occhi malinconici come di chi abbia superato anni di febbri malariche; i denti guasti e ingialliti. E’ chiaramente un povero, una specie di sottoproletario, abituato a vivere di espedienti. Ripete il gesto del dito tre volte senza fissarmi né parlarmi. E’ il cenno inequivocabile che devo avvicinarmi. Sono arrivato proprio davanti al tavolo ma continuano a non guardarmi.
L’altro, il capo abbassato, sta scrivendo – credo i miei dati anagrafici – in un registrone incartapecorito. Noto diverse macchie di unto nelle grandi pagine scritte a mano, cancellature vistose e correzioni sbilenche sulle righe. Alterna la scrittura dei miei dati con continue divagazioni sulla Gazzetta dello Sport, la sua faccia mi rimane spesso nascosta dietro il giornale.
Ora alza lo sguardo e mi fissa, ma solo per un istante.
Assomiglia a Nino Manfredi, ha un tic in un occhio, la barba incolta da almeno cinque giorni, una vecchia giacca con i gomiti laceri e stropicciata.
Viene, a questo punto, richiamato dal primo, con un marcato accento palermitano.

- Minchia a vuoi finiri i lieggiri stu cazzi i gioinnàli? Aviemu a Caruollu.

Allora con un certo fastidio alza gli occhi e mi squadra annoiato da capo a piedi. Mette di lato il giornale.

- Camurria.

Noto ora le sopracciglia scandalosamente folte, occhi lucidi e acquosi di alcolizzato in un viso smunto, le guance incavate, il naso adunco.
Capisco che sono i custodi dell’aldilà.
Capisco che il mio aldilà è popolare, scalcinato, guitto.
Dopotutto non mi è finita male. Il mio tribunale è formato da un san Pietro e un aiutante che sembrano usciti da un quartiere malfamato di Palermo.
Non ci sono angeli alati con spade, né santi ieratici.
Forse i miei giudici saranno più comprensivi.
Più umani.
Forse perfino Dio – oso pensare – è scalcinato come loro. E come me.
Anche se mi manderanno all’inferno giuro che mi sento più sollevato.
Dio almeno non è borghese.


137.2
Sarebbe stato noioso un Dio assiso su un trono, con le schiere degli angeli che suonano le trombe e le folle delle anime che intonano canti.
I beati mi danno sui nervi e io sono irrimediabilmente stonato dalla nascita.
A parte che non sono d’accordo su quest’affare delle lodi e dei canti al Dio padrone dell’universo. Sono piuttosto dalla parte degli operai che dei padroni io.
Meno male quindi che gli uscieri dell’aldilà sono questi due malandati che sembrano gli attori non professionisti dei film di Ciprì e Maresco. Una variante di Franchi e Ingrassia.
Uno poco fa si grattava la testa in un raptus scimmiesco: la sua forfora si sollevava in aria e ricadeva con effetto neve; e l’altro un momento prima aveva alzato un’anca dalla sedia e lasciato partire un peto, visibilmente sollevato in viso.
Ma – penso ancora – se il paradiso è noioso allora sono all’inferno?
Oppure Dio regna sull’inferno?
Così si spiegherebbe il male del mondo.
Ma allora – mi lancio in grappoli di congetture e conseguenze – se Dio regna sull’inferno Dio è Satana? O Satana in realtà è il Dio padrone assiso nel suo trono dorato con tutte le anime che schiave e genuflesse lo adorano? O Dio è sia Dio sia Satana, come noi che siamo sia bene che male?
Dio forse è un picaro semianalfabeta – come quei due – che è riuscito ad abolire l’inferno.
Infatti mi chiedo: se Dio è pietà misericordiosa, se Dio è padre di tutti gli uomini, come potrebbe un padre condannare i suoi figli alle pene eterne dell’inferno? Lo farei mai io con i miei figli? Non può esistere un padre così orribilmente vendicativo.
Dice, ma siamo noi che in realtà creiamo l’inferno e ci condanniamo da soli con i nostri peccati: balle.
Forse Dio è riuscito ad abolire sia il paradiso che l’inferno. Il primo perché palesemente noioso e nessun re si divertirebbe con una corte di estremi ruffiani che lo inneggiano per l’eternità; il secondo perché, ripeto, nessun padre potrebbe punire i propri figli fino a condannarli alle pene eterne.
Il purgatorio? Mah, mi sembra un improbabile regime di mezzo, un compromesso: una specie di soluzione democristiana, insomma. Tutt’al più – penso – il purgatorio è la vita sulla terra; invece nell’aldilà sarebbe una sorta di prolungamento ingiustificabile per una mente divina, una sanatoria edilizia, una cosa così. Forse inferno, purgatorio e paradiso sono solo nella nostra mente. Forse che dopo una vita vissuta, dopo la vecchiaia – per chi ci arriva –, la malattia, la perdita delle illusioni e infine la bara, chiunque, anche il più cattivo – che già ha pagato con il peso dei suoi peccati sulla coscienza – non ha il diritto di riposarsi nel nulla eterno, senza che nessuno gli caghi più il cazzo?
Ma mi accorgo di essere già diventato acido, troppo pesante. Allora mi guardo a uno specchio e mi dico in faccia:

Ridi, cazzetto, ridi e vai!

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