lunedì 20 ottobre 2008

Pen-sieri Sieri di penna


PEN-SIERI
Sieri di penna
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Immagine di B. Carollo
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Numerate fiale ermetiche di siero
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119.

In un paesino c’è una piazza immensa. I suoi confini non sono conosciuti. Si vede l’inizio ma nessuno ha mai percorso tutta l’estensione. Non si sa da quanto tempo esista e chi e perché l’ha costruita. È una piazza asfaltata perlopiù o lastricata; grande, smisurata come il mare. Il paese è piccolo, modesto, senza fabbriche, di circa tremila abitanti. Nel centro assolato e desertico della Sicilia. I ragazzi ci si avventurano a passeggiare ma hanno una specie di timore reverenziale. E se si spingono oltre li prende la paura e vogliono subito tornare a passeggiare nella piazza ma lambendo i caseggiati, o comunque tenendoseli a vista d’occhio. E’ come se avessero paura che un sortilegio li colpisse. Come se la stessa piazza fosse il risultato di un incantesimo inspiegabile perpetrato tanto tempo fa. Spulciando nella biblioteca del paese non ci sono notizie circa l’origine della piazza. Sembra che ci sia sempre stata. Una specie di reticente omissione prende gli storici locali che cominciano come al solito i loro libri con l’incipit rassicurante “Alqamah è una ridente e operosa cittadina adagiata alla falde del Monte Bunifat…”, ma fanno bene attenzione a non menzionare la piazza in questione: come se non esistesse. Tutti, in effetti, in paese fanno finta che non esista e non ne parlano mai nei loro discorsi. Solo i bambini e i ragazzini a una certa fase della loro età ne discutono animatamente, ma poi, dopo un certo periodo, rimuovono il problema e continuano la loro vita di sempre. Solo al fuoco dei focolari in certe notti stellate di villeggiatura i vecchi possono a volte essere indotti dai più giovani a vincere la loro estrema riluttanza. Allora qualcuno degli anziani, dicono, si sia lasciato scappare qualcosa, ma è tutto un farfugliamento e non si ha alcuna certezza. C’è chi sostiene, per esempio, che nessuno vada verso il centro ignoto della piazza immensa perché questa potrebbe improvvisamente trasformarsi in un mare o in un lago senza confini e far annegare chi ha osato avventurarsi lontano. A volte per la verità qualcuno si è inoltrato in fondo ma non è più tornato. Qualche altro che è andato a cercarlo è tornato senza ritrovare niente e si è chiuso in un ostinato mutismo, o in logorroiche perifrasi senza peraltro riuscire a spiegare nulla. Di sicuro c’è che penetrando nella piazza, di quanto ti allontani verso il centro ignoto di tanto sembra avvolgerti in una specie di magia, per molti di maleficio. Qualche decennio fa si organizzò una vera e propria spedizione, con carretti, muli, cani, tende e viveri. La spedizione tornò dopo due anni e il suo unico risultato fu di trovare solo degli scheletri di umani sul selciato infinito in ogni direzione. E nessuno poté dire di essere arrivato al centro della piazza o di averne percorso una precisa quantità, perché non si può stabilire dove sia il centro di uno spazio indefinito in ogni direzione, né quanta distanza sia stata percorsa rispetto all’interezza della piazza che rimane del tutto sconosciuta. Uno dei misteri è la pavimentazione della piazza, fatta di asfalto, selciato, blocchi di pietra e di altro materiale più povero e via via più naturale, come terracotta, poi terra schiacciata con paglia, poi semplici pietre a secco sempre più sconnesse. Qui bisogna fare una precisazione. Non è che la piazza sia davvero non misurabile. Diciamo che fisicamente è attraversabile ma, nonostante ciò, la sua sostanza resta misteriosa ed infinita. Infatti alcuni delle avanguardie delle carovane esploranti sono riusciti a raggiungere un luogo nel quale l’asfalto finisce e comincia senza soluzione di continuità la campagna. Una campagna brulla, silenziosa, calcinata e disabitata. Ma scavando sotto la terra rocciosa dove crescono solo arbusti, muschi e licheni, si è scoperto in uno strato sottostante un resto di antiche pavimentazioni di pietre a secco sconnesse. Molti per la verità affermano che non sono opera dell’uomo ma della natura con le sue casuali sedimentazioni rocciose. Altri invece sostengono che la piazza continua. Perciò non si può stabilire se in tempi antichi la natura non abbia preso il sopravvento sull’asfalto o su altro tipo di pavimentazioni e abbia semplicemente coperto ed occultato la piazza. Infine c’è chi sostiene che se anche la piazza finisse e cominciasse la campagna, sarebbe lo stesso: chi può escludere che il progetto originario non prevedesse appunto tale suo “innaturamento” nella campagna? Chi ci dice che la campagna non faccia parte della piazza? I puristi della tesi massimalista dell’estensione infinita della piazza arrivano a postulare che essa comprenda originariamente secondo il progetto dei suoi costruttori anche la campagna circostante, il mare, i monti e tutto il resto, cieli compresi. Poi c’è chi si arrovella su chi sia o possa essere stato il costruttore di una simile piazza. Uno? Molti? E le motivazioni? Il fatto è che comunque nel paesino nessuno ne parla volentieri e tutti, ripeto, vivono facendo finta di niente. Molti restano nel paese fino alla morte, altri tentano la fortuna cercando di sfidare la piazza. Tutti alla fine muoiono nel tentativo di percorrerla per intero. Questa piazza deve però sicuramente portare una maledizione, perché nessuno alla fine ritorna indietro vivo. Anche chi vive cento anni nel tentativo di attraversarla muore senza saperne i confini. Tanti hanno perciò deciso di adorare il costruttore misterioso della piazza. E pur senza conoscerlo sostengono di avere fede in lui e affidano la propria vita a lui. Altri non ci credono; la maggior parte vive come se non esistesse né la piazza né il problema del credere o no a chicchessia. Io sono uno di quelli che in tempi lontani, quando ero giovane, si incamminò dentro la piazza deciso a percorrerla fino in fondo. Man mano stendevo scrupolosi appunti di viaggio ma ora vedo che questi appunti mi hanno ostacolato o forse semplicemente mi hanno portato sfortuna. Capisco di essere caduto anch’io vittima del contagio. Allora ho strappato tutti i fogli scritti in precedenza e anche quest’ultimo foglio che sto scrivendo farà la stessa fine. E’ meglio non parlarne più e proseguire muto. Tanto non saprò mai la vera sostanza e l’entità nascosta di questa piazza misteriosa. Meglio non pensarci e vivere come tutti gli altri. Ma il fatto è che se uno comincia a porsi il problema allora la passione lo porta ad avventurarsi dentro la piazza. E a restare inghiottito nella vastità del suo centro infinito. Scrivo questi ultimi appunti e li abbandono in mezzo alla piazza al centro della quale (al centro? Chissà…) mi spinsi molti anni fa col solo risultato di essermi irrimediabilmente perso come tutti gli altri. Non si vedono più forme viventi, né vegetali né animali, nel cielo c’è solo appena un alito di vento che presto si fermerà in un’assoluta bonaccia. L’alternarsi di giorni e di notti si è alterato e un giorno dura tantissimi giorni. O forse così a me sembra perché comincio a perdere la cognizione di me stesso e dei miei organi sensoriali. Ora camminerò in una direzione qualsiasi, solo, senza quasi più viveri, e senza speranza di trovare la via d’uscita. Non scriverò più e forse nessuno mi troverà mai. Vivo o morto che sia.

120.

120.1
Un primo piano di una donna e di un uomo. Sono vicini, chiacchierano, si stanno seducendo, ridono. Lui socchiude a volte gli occhi luminosi. Lei risponde con colpi di ciglia rapidi; un sorriso delle labbra appena accennato. Da distanze indefinibili a intermittenza ovattata si espande gracchiante e nasale una maliziosa voce maschile di una melodia d’altri tempi; forse c’è un vecchio grammofono dorato da qualche parte. I due sono eleganti, in abiti da sera. Lei è in decoltè; un pendente luccicante al collo tenuto da un’esile catenina d’oro. Lui, con i capelli imbrillantinati e un ineccepibile gessato, le accarezza l’omero delicatamente con l’indice in un gesto naturale mentre continua a parlare fissandola. Il primissimo piano si allarga di un metro e scopro che sono seduti su di un divano rosso. E’ un divano in stile classico barocco, con la stoffa di broccato pregiato a motivi floreali bianchi su fondo rosso; il legno è scuro, tutto intarsiato e intagliato con figure mitologiche. Mostri, fauni, centauri, silfidi, ninfe. Posso scrutare come al microscopio le trame naturali del legno. Il divano è grande e vetusto. Qua e là qualche buchino attesta la presenza di termiti. Non riesco a seguire la conversazione, non perché non sia in italiano – capisco che parlano in perfetto italiano – ma è come se le parole mi arrivassero deformate da difetti fonici. Come un brusio derivato da una distorsione della pronunzia; una specie di cicaleccio. Più mi concentro più non riesco ad acchiappare il bandolo della conversazione. Soltanto qualche parola mi arriva perfettamente distinta, qualche parola e basta. La zumata si allarga ancora di un altro metro e vedo che i piedi a testa di leoni del divano sono semisommersi dalla sabbia. Il vento, che ora si ode fortemente a raffiche ululanti – era per causa del vento che non potevo seguire la conversazione? – solleva vortici di sabbia che si accumula a terra, attorno ai piedi del divano e anche sui grossi cuscini. I due continuano a parlare amabilmente trascinati dal gioco della seduzione e dalle regole galanti della conversazione borghese. La zumata si allarga fino a divenire un grandangolo e ora vedo il divano e i due che conversano molto lontani. Sono soli, seduti sul divano in mezzo a dune di sabbia. Enormi e chilometriche dune di sabbia come onde che si rincorrono parallele a perdita d’occhio. Il divano si distingue appena nell’intercapedine di due dune fra innumerevoli altre dune. Siamo in un punto imprecisabile nel cuore del deserto del Sahara. Il vento ulula e alza una tormenta di sabbia. Il sole sembra piantato con i chiodi nel mezzo esatto del cielo: non si muove di un millimetro. La luce accecante rende ogni cosa luminosa e senza spessore. Luminosa fino all’estremo biancore insostenibile.

120.2
Il divano con i due è sulla punta dell’Everest. Estremi picchi montuosi, ghiacci. Di lato si intravede lontanissima una stradina senza protezione in un fianco del monte a dirupo sull’abisso. Solo qualche yak piantato sugli zoccoli si è inerpicato quasi fino a loro. Il suo occhio convesso riflette in un bianco e nero deformato il divano e i due che continuano a parlare amabilmente del più e del meno.


120.3
Il divano rosso, il divano barocco con i due, è ora in una grotta sommersa in fondo all’oceano. Stranamente mi sembra naturale che possano respirare sott’acqua come se nulla fosse. Il divano è asciutto e anche loro. Le parole si sentono amplificate ed echeggianti nella massa blu dell’acqua. Ma si confondono con lontani ancestrali respiri di capodogli e canti di megattere in amore.

120.4
I due sul divano sono vivi? Sono morti? Sto forse sognando? In che modo io posso vederli? E’ un messaggio per me di qualche maestro occulto mandato da mie esistenze passate o future attraverso i sogni? Devo capire qualcosa? E cosa? Cosa può simboleggiare tutto questo? Chi sono questi due? Mi sembrano sconosciuti. Saranno miei lontani progenitori? O forse miei successori? Figli dei figli dei miei figli? Non saprei. Potrebbe essere la visione di un mio momento vissuto in futuro? O in vite future? O in vite passate? Il maschio potrei forse essere io in qualche altra incarnazione? Allora se prendiamo le possibili incarnazioni potrei essere io anche la donna. Potrebbe perfino darsi il caso che possa essere io sia la donna sia l’uomo: cioè loro due potrei essere io in separate esistenze. Due me di esistenze diverse che nella visione possono incontrarsi e parlare. In questo caso sarebbe stato importantissimo sapere cosa si stessero dicendo. Ma non è dato di saperlo: la conversazione purtroppo era indistinguibile. Ma sembrava una conversazione effimera e fatua! Però poteva darsi che sotto la leggerezza di una conversazione galante i due me mi stavano mandando un messaggio di vitale importanza, chi lo sa. Se lui ero io forse lei poteva essere la mia anima gemella? Poteva anche essere la morte? La morte potrebbe venire come una sensuale donna per sedurmi? O era il mio angelo custode? O ero entrambi io, come avevo detto prima, solo che uno dei due ero forse io illuminato e tornato sulla terra come buddha perfetto per parlare con l’altro me che ancora doveva percorrere infiniti kalpa ed eoni di karma per raggiungersi. In questo caso può essere che la nostra identità sia divisibile in identità plurali di esistenze parallele? Di esistenze che però possono infrangere il velo dello spazio-tempo dentro il quale stanno scorrendo? Come mai il divano si trovava in posti così estremi? Significa forse che tutto il mondo consueto è solo uno scenario di parvenze? Che tutto il nostro pianeta è un teatro di ombre cinesi? Forse i due erano il principio maschile e quello femminile – yin e yang – dell’universo? Può darsi che erano Dio padre e la Madonna? Saprò mai rispondere anche solo in parte a queste domande? E se anche potessi trovare queste risposte, chi mi dice che le domande decisive non erano altre e totalmente diverse da queste che mi sto facendo?

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