venerdì 18 settembre 2009

fiala di siero 146. Tratto da Pen-sieri (libro inedito personale)


146.

E’ ormai piena notte ma continuo a indugiare tra i vicoli di Erice. Un dedalo inestricabile di venuzze e capillari delimitato da muri di pietre a secco e chiese sbilenche e consunte. Improvvisamente, come avviene spesso in questa cittadina, la nebbia cala e avvolge ogni cosa. Proseguo indolente, ipnotizzato dal corso dei pensieri e dal calpestio delle mie suole di cuoio. Amo perdermi nell’osmosi dei bronchioli di stradine acciottolate, scale, cortili, curvature, patii, chiostri, balaustre, vedute abissali fin giù a Trapani, alle saline, al mare sinuoso, alle isole Egadi; godermi il cielo nero, profondo, trapuntato di stelle luccicanti, lo sciame della Via Lattea. Ma ora la nebbia mi consente di vedere solo ciò che lambisco. A volte chiudo gli occhi e mi lascio accarezzare dal vento e dai suoni della notte. I lampioni illuminano piccole chiazze lattescenti di nebbia che si avviluppa su se stessa. Costeggio un cimitero ebraico con le tombe sconnesse, le lapidi mezze divelte. Non credevo che a Erice ve ne fosse uno. Entro dentro il cimitero, indugio sulle calligrafie di iscrizioni ebraiche che non so decriptare. Cammino oltre. Sono catturato da ogni cosa che percepisco, gustandola come fosse un’apparizione stupefacente. Senza accorgermene sono finito del tutto fuori mano. Ogni tanto sbucano dalla nebbia figure che un attimo dopo sono inghiottite nuovamente nell’impalpabilità biancastra: un uomo con baffetti spioventi, azzimato nel suo vestito stretto, si appoggia a un bastone nero laccato con punta d’oro e manico d’avorio a forma di teschio; nebbia; una coppia di anziani coniugi, forse centenari; nebbia; un cane con la coda in mezzo alle gambe, preannunciato dal ritmico tocco delle sue unghie sul marmo, mi scansa con un guaito, lanciandosi in un’accelerazione; nebbia; una donna in abito da sera di seta bianca (caschetto a scalare di biondi capelli) si accende una sigaretta all’estremità di un lungo bocchino d’argento; nebbia; un bambino – o un nano? – in calzoncini corti; nebbia; un prete con un cappello a falde larghe e la tunica nera; nebbia; una carrozza trainata da un cavallo con le ruote che cigolano. Nitrisce. Il suono degli zoccoli si smorza lentamente. Nebbia. Rintocca una campana da un alto campanile. Nebbia. Un pipistrello – che come me ha perso l’orientamento – quasi mi fa cadere il cappello. Mi sono perduto. Vago a una certa ora della notte per il bosco di Erice. Latrati di cani si rincorrono nelle lontane contrade della campagna. I grilli intonano il solito concerto di fischi. Sento dentro la nebbia a una distanza indefinibile scoppi di risa, brandelli di conversazioni, fitti sussurri. Non so individuare che poche insensate parole. Sarà un’allegra brigata di giovani che fanno le ore piccole. Non riesco a capire né dove sono né quanto tempo sia passato. Forse un’ora, forse due, ma ho la sensazione – come un sospetto – di camminare da un tempo infinito. Mi siedo su una roccia, respiro: seguo le mie espirazioni confondersi con la nebbia in spirali fumose. Mi accorgo di essere gomito a gomito con una coppia, credo staccatasi dal gruppo: si baciano appassionatamente.
La nebbia li rende diafani come una parvenza.
Lei si gira a fissarmi. Avvicina la testa fino a toccare la mia fronte e scruta, scruta a lungo. Poi inquieta dice al suo innamorato:
“Ma non hai anche tu l’impressione che ci sia qualcuno accanto a noi?”.
“Ma no, che dici”, risponde il giovanotto.
“Eppure potrei giurare di aver visto come il fiato di un uomo che faceva mulinare la nebbia, proprio qui accanto a me!”.
Trattengo il respiro, il giovane allunga le mani proprio nel punto esatto dove sono io. Le sue braccia, pur cingendomi, attraversano il mio corpo senza toccarmi. Rimango allocchito.
“Non vedi che non c’è che nebbia? E chi credi ci sia un fantasma? Vieni qui, sciocchina!”.
E ricominciano a baciarsi.
Spariscono in una densa folata di nebbia.
Io o loro?
Urlo: “Chi di noi è il fantasmaaa?”.
Nessuno risponde.
Nebbia e ancora nebbia.

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