mercoledì 14 ottobre 2009

Fantasma

Fantasma





Pioggia mista a grandine, crepitii amplificati dall’abitacolo, picchiettii sul tetto, sul cofano, sul vetro della Ford Transit. Di tanto in tanto una gragnola come una raffica di mitra. Pace del non tempo di un temporale autunnale.
Il tergicristallo azionato a tutta, con un suono distante di risucchiato gemito, permetteva a malapena la vista di qualche metro di strada allagata.
Non m’inquietai, anzi in queste circostanze mi rilassavo.
Viaggiavo per lavoro tutti i giorni, a quei tempi. Rappresentante di una ditta di vestiti. Facevo il giro dei negozi di abbigliamento delle province di Palermo, Agrigento e Trapani. E in strada ne avevo viste di tutti i colori.
Rallentai sulla bretella che collega l’uscita autostradale di Alcamo-est alla provinciale Alcamo-Alcamo Marina.
Svoltai per Alcamo. I temporali mi erano sempre piaciuti.
Sembrava ieri. Pensai a quella volta che, bambino, mia madre mi sgridò solennemente perché ero rientrato a casa bagnato fradicio dalla testa ai piedi. Uscendo dalla scuola mentre imperversava un temporale con fulmini e boati mi ero incamminato senza meta nelle strade del paese deserto ed ero tornato solo a sera. Non saprei dire cosa avevo fatto per quelle ore: avevo vagato. Adoravo vedere le cose attraverso la pioggia. Ricordo solo che camminavo lentamente in una calma beata mentre mi penetrava una freschezza irresistibile. In quei momenti mi assaliva una specie di tristezza eroica, solitaria, e tutto appariva nella sua verità. Ma non saprei spiegare. Le parole sono inutili se non lo hai mai provato. Quella tristezza mi rendeva partecipe di un segreto inaccessibile, in una landa eterna di libertà malinconica. Mi stupii del tempo passato. Appena un attimo fa era quel bambino e dopo quest’attimo – milioni di attimi identici quindi un solo attimo – ero già qui a compiere il mio giro delle province. Ma chi ero veramente? Che ci facevo al volante?
Focalizzai ancora per un istante l’insegna Alcamo; quella con la scritta Alcamo Marina invece indicava verso destra. Guardando alternativamente dagli specchietti laterali – dal retrovisore interno vedevo una fila di vestiti pendenti nelle grucce allineate a una stecca – notai che non c’era nessuno dietro. Né davanti. Mi cullavano la sinfonia battente della pioggia, lo strascico felpato con singhiozzo ritmico dei tergicristalli, le cascatelle dell’acqua che si alzavano da sotto le gomme, il tintinnare ferroso delle grucce con i vestiti appesi.
Da almeno un’ora non incontravo anima viva. Nessuna macchina. D’altronde con quella burrasca. Solo un po’ prima – un po’ quanto? Avevo perso la dimensione del tempo – avevo intravisto ai margini della strada, in un vigneto digradante, un gregge con il suo pastore. Visione di due secondi: un tipo alto, quasi monumentale, con una lunga barba grigia, le pecore ferme, una verga in mano. Neanche a lui sembrava importare nulla del temporale. Mi fissò al passaggio. Mosè pascola le sue pecore. Pensai anche a un pastorello di terracotta del presepio di mia nonna.
Allungai il braccio destro e presi il pacchetto rosso e bianco con la scritta Marlboro. Associazione diretta con la Ferrari. Sfilai una sigaretta, l’annusai, me la misi in bocca senza accenderla. Gettai di nuovo sul sedile il pacchetto che fece un muto sobbalzo sulla stoffa blu e si riposizionò accanto a una penna Bic nera senza astuccio, a un’agenda con copertina di cuoio sciupato tutta gonfia di pizzini inseriti, all’accendino di metallo a petrolio – che era stato di mio padre –, agli occhiali da sole, al mazzo di chiavi tra le quali spiccava quella verniciata verde della porta della casa sul mare. Vi abitavo solitario da tre anni. Le stanze mute – pensai – mi aspettavano nella loro disumana immobilità. Immaginai, anzi mi sembrò di vedere, i soprammobili, le tende, le maniglie delle porte. Il monotono rumore delle onde sulla battigia. Solitudine.
Sul cruscotto era attaccato un foglio giallo con gli ordini dei negozi. Nome, via, numero, telefono, ordinati in colonne.
Dalle cunette come due fiumi fangosi tracimavano sull’asfalto tingendolo di marrone. Le gocce nell’attimo in cui sbattevano a terra formavano sulla strada allagata miriadi di minuscole conche. Individuai l’accendino, riallungai il braccio, lo presi, feci una pressione col pollice destro sulla rotellina dentata che sfregò la pietrina, scintillò, si generò una fiamma troppo grande, una fumata e un acre odore di petrolio. Accesi la sigaretta. Aspirai avidamente il fumo che per un attimo avevo fatto galleggiare dentro la bocca semiaperta. Lo tenni a lungo nei polmoni, infine con una lunga espirazione lo diressi sopra una mosca che, imprigionata nell’abitacolo, tentava testardamente una vana evasione sbattendo la testa sul vetro. Impossibile varco. Fu sommersa dal fumo, poi cambiò volo uscendo dalla vista. Il suo sibilo si interruppe. Si risentì a tratti, coperto dalle mitragliate della grandine.
Classico temporale di fine ottobre.
Un sole tisico non riusciva proprio a farsi spazio dietro la fitta coltre di nubi.
Pur essendo ancora le 16.00 c’era già un buio notturno.
Non ero ancora giunto al curvone del cimitero vecchio – gli alcamesi lo chiamano “primo cimitero” – che notai una giovane donna proprio sotto l’impazzata del temporale. Sola, camminava con passo di felino. A parte lo stupore, la cosa che mi attrasse di più fu l’avvenenza dell’incedere. Le forme del corpo, sotto un vestito demodé di seta bianca, prorompevano sensuali. L’acqua attaccava la sottile stoffa alle cosce ben tornite, i glutei serici sballottavano a ogni passo, le caviglie erano sicure sui tacchi. Notai il caschetto dei capelli anni Trenta, la borsetta minuscola, le reggicalze in trasparenza. Spensi la sigaretta. Rallentai, l’affiancai, abbassai il finestrino.
- Ha bisogno di qualcosa?
La donna si girò lentamente, continuando a camminare. Era pallida ma gli occhi ardevano. I capelli biondi, bagnati, attaccati alle guance. Un neo proprio al centro della guancia sinistra. Bellissima. Non avrei mai più dimenticato quello sguardo ardente diretto a me e insieme verso il centro del nulla. Come uscisse da altre coordinate spazio temporali. Un tuffo al cuore.
Procedevo al suo passo.
- Avanti salga, non abbia timore.
La donna allungò il braccio verso la maniglia dello sportello. Un attimo dopo sedeva al mio fianco; tutta bagnata guardava fisso davanti. Il torace al respiro le si alzava ed abbassava. Sotto il vestito di seta, reso trasparente dalla pioggia, ad ogni inspirazione affioravano le costole parallele. Un roseo seno prosperoso. I capezzoli induriti. I pori della pelle d’avorio. Pelle d’oca.
- Aspetti ancora, dissi.
Trangugiai saliva, il pomo d’Adamo salì e scese nel collo.
Con una torsione del tronco, il mio braccio teso raggiunse il sedile posteriore, sormontato dai vestiti dondolanti. Stirando l’indice al massimo agganciai la giacca dietro. La sistemai sulle spalle di lei.
- Se la metta, morirà dal freddo.
La donna rimase indifferente a fissare davanti un punto invisibile. Solo un angolo della sua bocca si mosse ad accennare un sorriso. Poi sembrò riassorbita in sé. Il contatto con l’omero esile mi fece rabbrividire. Sensazione mista di sensualità e di angoscia. Per un momento mi invase il sospetto di essere dentro un sogno e non nella realtà. Era come se mi vedessi da fuori; percepivo le cose in uno stato di maggiore intensità emotiva. Ebbi la sensazione di aver già vissuto quella scena. I déjà vu mi capitavano spesso. Una volta ne parlai con uno zio prete, Don Baldassare, molto anziano e di letture originali. Lo zio mi riferì una credenza antica, di dubbia origine, tratta dall’esoterismo persiano e indiano. Che ogni cosa che facciamo l’abbiamo già fatta, come in una specie di tempo circolare eterno. E torniamo a fare ed incontrare le stesse cose e persone. Solo che non ce ne ricordiamo perché il tempo della nostra anima non si misura con l’esistenza presente ma con tutto il ciclo delle nostre esistenze passate e future.
- Ma non diciamolo al Vescovo, altrimenti mi manda in mezzo alle vacche a dire messa! A Grisì, perlomeno mi manda! La battuta dello zio.
Eravamo seduti a un tavolino per la solita partita a scacchi del sabato mattina in sacrestia. Mi ricordo del bicchiere di vino rosso, della sua risata prolungata, degli occhi malinconici, profondi.
- Come si chiama signorina? Dissi con voce ferma.
- Anna.
- Io Giuseppe. Ma si può sapere che faceva sotto un temporale così? Dove andava, caspita?
- Mi sono persa.
- Meno male che ha incontrato me. Se permette l’accompagno a casa.
- Grazie.
- Lei sta tremando dal freddo.
La donna mi sorrise ancora, grata, poi continuò a guardare avanti, assorta nei suoi pensieri. Era di una bellezza fatale. Mentre guidavo non potevo evitare di far cadere ogni tanto lo sguardo su quelle cosce perfettamente tornite all’altezza dell’orlo di seta del vestito. La sua attrazione su di me era allo stesso tempo sensuale e spirituale; i due piani coincidevano. Mi sembrava di conoscerla da sempre. Il déjà vu persisteva: io avevo già vissuto quella scena. Mi stava accadendo una cosa che mi doveva accadere per destino. Per qualche secondo rimasi ipnotizzato. La desideravo. Avrei avuto voglia di possederla, lì, in quel momento, sotto il temporale.
- In che quartiere abita Anna?
- Santu Vituzzu.
Lo conoscevo bene. Era il vetusto centro storico di Alcamo. C’eravamo già dentro. Una sorta di Medina con stradine, cortili, balaustre su dirupi, scalinate, case sbilenche, semidiroccate, abbandonate da secoli. Il vecchio quartiere che si snoda attorno alla biviratura araba. Qui gli islamici costruirono il primo nucleo del casale di Alqamah.
Svoltai a sinistra lasciandomi dietro la prima chiesa madre di Alcamo, Santa Maria della Stella – sommersa nell’oblio di un abbandono secolare – e una grande croce di ferro arrugginito posta su un piedistallo di marmo dov’é impressa, in una cornice ovale, l’effige della Madonna Addolorata: “A Santa Cruci”. Salii per un budello lastricato in blocchi di travertino, scesi ancora a sinistra, costeggiai la Biviratura. Salii ancora e mi trovai dentro il dedalo labirintico di case in calce. Il quartiere era deserto. Sembrava che tutti fossero fuggiti in un tempo lontano. Le case basse, con archi di pietra a secco, chiuse o abbandonate, i portoni di legno rugoso con la vernice sbiadita, i canali, le tendine polverose, i muri inquacinati gibbosi e scrostati. In molti portoni era affisso – chissà da quanti decenni ormai – un rettangolo di stoffa nera obliqua, in segno di lutto. Negli anni Ottanta e negli anni Novanta due guerre di mafia avevano fatto fuori due generazioni di ragazzi proprio di questo quartiere. Un anziano poliomielitico, depositato a terra, con le gambe rinsecchite, incrociate, davanti a un uscio, fissava con occhi inespressivi una crepa, diramata come un fulmine, nel muro di fronte. Una vecchia, imbacuccata di vesti nere e sciallina in spalle, lavorava a un telaio su una sedia impagliata; il suo viso contornato dal velo nero sembrava una maschera grinzosa come quelle che a Carnevale le cartolibrerie espongono nelle vetrine. Un mulo, col suo basto di legna e fieno, batteva uno zoccolo a terra e muoveva le orecchie per scacciare le mosche. Molte strade si perdevano nel nulla di cortili in terra battuta o, senza soluzione di continuità, nella campagna. A tratti tornava il sole e, con potenti cambi di luce, disegnava i profili d’ombra delle case sulla strada vuota. Uno strano silenzio avvolgeva ogni cosa. Quel quartiere trascinava la sua vita in una lunga, fatata eutanasia. Il tempo non sembrava toccarlo. I pochi rimasti continuavano a vivere come cinquanta o sessant’anni prima. Galline scorazzavano in un cortile becchettando a terra qualche mollica con il loro petulante chioccio, le cicale intonavano la loro prosodia monotona, si udiva a intermittenza il tintinnio di campanelle al collo da ovili non lontani. Un’atmosfera malinconica, come in tutti i quartieri degradati.
- Sono arrivata.
Mi guardò e sorrise con dolcezza. Non potevo farmela sfuggire così. Dovevo trattenerla. La sua semplice presenza mi faceva battere forte il cuore nel petto.
- Ascolti Anna, tenga pure la mia giacca adesso, lei è ancora tutta infreddolita. Io faccio il giro solito dei negozi. So già che il mio lavoro mi porterà via tre ore. Alla fine, se non le dispiace, mi vengo a riprendere la giacca e così abbiamo l’occasione di bere un tè caldo insieme e scambiare due chiacchiere. Le va?
- Va bene, sorrise.
La vidi attraversare la strada, infilarsi in una stradina e svanire dentro l’ombra di un portone.
La vecchia grinzosa alzò gli occhi dal telaio e mi fissò insistentemente. La ignorai.
- Allora abita lì? Dissi ancora, alzando un po’ la voce per farmi sentire dall’interno dell’abitacolo.
- Sì.
- Ci vediamo tra poco.
- L’aspetto.
Feci il mio lavoro con febbrile svogliatezza. In realtà pensai continuamente a lei. Ma non mi sentivo come avrei dovuto, anzi piuttosto depresso. Possibile che un incontro di cinque minuti mi poteva sconvolgere? Che fosse un colpo di fulmine? Sorrisi tra me alzando una spalla. Avevo già passato l’adolescenza da un pezzo e neanche allora ero così romantico da credere al colpo di fulmine. Eppure tornavo a pensare a lei. Qualcosa di inesplicabile mi legava a quella donna. E poi quella strana sensazione di averla già conosciuta. Ne ero del tutto sicuro, ma più cercavo di capire in che modo e più i pensieri si sfocavano. Ero ad un passo dal capire ma poi perdevo il bandolo. Come quando entri nella tua stanza e ti accorgi al volo che c’è qualcosa fuori posto ma non riesci a individuarla, ti sfugge, e poi all’improvviso: ecco cos’era! Ma nel mio caso tutto si risolveva in nebbia, in una sensazione di attrazione e mistero incombente.
Completai il mio giro con il negozio di Santino. Lo lasciavo sempre per ultimo perché eravamo amici e mi concedevo una chiacchierata di rito con lui alla fine. Ci fumammo una sigaretta. Santino aveva qualche anno in più di me, capelli brizzolati; solitario ed elegante. Come me non si era sposato e aveva sul viso un’ombra, un’inquietudine. Gli parlai del mio incontro con Anna. Si grattò la testa, non riusciva ad inquadrarla e la cosa gli sembrò strana perché in quel quartiere conosceva tutti fin da bambino.
Niente. Buttai il mozzicone a terra, gli strinsi la mano, misi in moto. Salii dritto, superai la via Porta Stella – un’antica solitaria stradina piena di edicole votive, i fiureddi – , raggiunsi il Castello, un lampo del sole redivivo abbagliò il parabrezza accecandomi per un attimo, svoltai dalla Via Commendatore Navarra, scesi giù da Piazza Bagolino ed arrivai di nuovo nel cuore del quartiere Santu Vituzzu. Sbattei lo sportello, mi guardai intorno. Dunque era qui che l’avevo lasciata e quella è la casa. Il portone dava in un cortile che veniva interrotto da un enorme muro di blocchi di pietra squadrati. Era un pezzo delle mura medievali di cinta, sopravvissuto all’ingiuria dei secoli e delle devastazioni. Su di esso un rampicante apriva penduli fiori arancione che da bambini chiamavamo sucameli perché, succhiandoli da sotto, davano un sapore fresco e zuccheroso. Api e calabroni mischiavano i loro ronzii come sibili di mantra tibetani nell’umida calura. Un cancello mangiato dalla ruggine immetteva in un religioso silenzio d’orti.
Giunto davanti al portone mi resi conto che non c’era alcun campanello.
Picchiai il legno con il battente di ferro arrugginito a forma di testa di leone.
Tutta la casa riecheggiò di rimbombi dalle fondamenta.
Ebbi immediatamente la certezza che era disabitata. Disappunto. Mi guardai di nuovo intorno. Nessun’anima viva. Tornai a picchiare ancora più forte. Feci tre passi indietro. Squadrai tutta la casa.
Un geranio in un vaso sul balcone mezzo divelto era totalmente secco. Non c’erano più dubbi: era deserta e anche da molto tempo.
Mi accesi deluso l’ennesima sigaretta.
Il fracasso del battente aveva attirato la vecchietta dal viso rugoso, che, lasciato il telaio, si era alzata e curiosava apertamente dandosi appena un contegno col fare finta di spazzare il marciapiede.
Colsi l’occasione.
- Scusi tanto, ma la signorina Anna non abita qui?
Mi guardò allocchita, poi si avvicinò, sostenendo i suoi passi malfermi con la scopa.
- Comu rici? Ripitissi pi favuri. Aveva occhi azzurri e acquosi, uno dei quali ottenebrato da una cataratta.
- Sì, dicevo: stamattina ho lasciato la signorina Anna a casa sua e adesso dovevamo rivederci. Ma non abita qui?
- Nna sta casa nun ci sta chiù nuddu da sessant’anni.
- Ma se appena tre ore fa ho dato un passaggio a una ragazza di nome Anna e l’ho vista entrare coi miei occhi in questo portone!
Mi ha visto pure lei, ricorda? Stava seduta al telaio lì di fronte e ci guardava.
- Sintissi giuvini: veru è chi stamatina la taliavu quannu si firmà cca, ma lu sapi picchì? Picchì mi paria – cu rispettu parrannu – un foddi chi parrava sulu.
- Ma come sarebbe? Parlavo solo? Non ha visto la ragazza? Possibile che abita qui e lei non conosce Anna? Mi stavo spazientendo con quella vecchia bacucca.
Per un attimo sembrò rianimarsi, scuotersi.
- Scusassi, ma comu rici chi si chiamava sta picciuttedda?
- Anna si chiama.
Il suo occhio limpido si fece più attento e fisso. Tornò a scrutarmi dalla testa ai piedi e poi all’inverso dai piedi alla testa. Mi dava ai nervi. Le mani ossute, piene di vene varicose le tremavano. Aveva il Parkinson.
- Attintassi: veru sessant’anni narré cca ci stava na signurina chi si chiamava Anna. Na bedda signurina: stavamu tuttu u jornu nsemula, aviamu crisciutu comu soru di quann’eramu picciriddi, chi ghiucavamu cu i bamboli ncapu stu scaluni; picchì la so casa era a tuccari cu chidda me. Ma poi idda murìu. Muriu di disgrazia: si lassò moriri nnu lettu p’amuri d’un picciottu.
Restai interdetto. Un brivido mi corse dietro la schiena. Non saprei dire perché. Forse per la situazione surreale, e forse perché la vecchia continuava a lanciarmi sguardi in modo morboso.
- Mi ricissi natra cosa picciottu, – la vecchia si appoggiò al mio braccio e, ingobbita, mi scrutò da sotto in su col suo occhio sano, azzurro più che mai, avvicinandosi in modo spaventoso – ma lei comu si chiama?
- Giuseppe.
- Ah mu mmagginavaa, ebbe come un sorrisetto d’oltretomba, ma era innocua. Poverina doveva essere mezza tocca per via del Parkinson.
- Ma perché mi continua a guardare così, signora? Che fa mi conosce?
- Certu ca ti canuscivu! All’iniziu mi meravigghiavu assai, taliannuti e ritaliannuti, ma ormai sugnu vecchia e naiu vistu troppi cosi pi meravigghiarimi ancora. Ormai haiu chiù cunfirenza cu i morti chi cu i vivi. Aspettu sulu chi u Signuri m’arricogghi puru a mia.
Accussì perciò turnasti! Ta vinisti a pigghiari?
Ciò detto si fece la croce tre volte di seguito. Una lacrima le scivolò sulla guancia. Era del tutto evidente che mi scambiava con qualcun’altro e che al contempo fosse del tutto andata con la testa. Probabilmente alternava momenti di lucidità a momenti di obnubilamento. Dalle nostre parti la gente comune non va tanto per il sottile distinguendo negli anziani la pazzia, l’estrema vecchiezza, la perdita di memoria, l’Alzheimer, il morbo di Parkinson. Si usa dire che perdono colpi, che hanno l’arterii scurusi, l’arteriosclerosi, facendo di tutta l’erba un fascio. Questa era combinata così, non c’era dubbio. Ciò nonostante sperando mi desse una dritta per ritrovare Anna le diedi ancora corda.
- Sì, signora, sono venuto a prendere Anna. Ma non abita davvero qui? O in un altro portone? Sembra tutto disabitato il cortile…
- Ca certu ca stava cca. T’aspittà finu a la morti, t’aspittà. T’aspittà eternamenti.
- Mi racconti signora.
Riattaccò a parlare con la sua voce melodica e quasi in falsetto.
- E chi te cuntari a tia? So patri era troppu tintu cu idda, ed eranu puru autri tempi. Quannu u patri ricìa no era no. Annuzza era però un ancilu e l’ancili arraggiunanu megghiu cu i cieli ca cu l’omini. Perciò quannu so patri la nchiusi a chiavi rintra a so stanza, idda si curcau e dissi chi si un putia avillu nta sta terra allura l’avissi avutu ntall’atra terra, ncelu. Si fici a cruci e dissi: sia fatta a volontà di Diu. Un vosi chiù manciari. Avogghia a matri di priarla: nun ci fu chiù nenti di fari. A picciuttedda si lassò moriri ricennu ca senza iddu nun putìa chiù campari e chi si so patri nun vulìa, macari c’era speranza ca vulìa u Patri eternu. Annuzza accussì iu narrè narrè comu u curdaru. Puru iu ci ia ogni ghiornu o capizzu du lettu a cunsularla, ma idda ripitìa sempri a stessa musica. Aspittava a iddu e dicìa ca u destinu era destinu. Doppu tri misi murìu. Era bedda di moriri puru nno lettu di morti.
- Ma il ragazzo non fece niente?
- U picciottu si scantau di minacci du patri chi era ntisu assai a u paisi d’Arcamu. E accussì pi scurdarisilla fici i valiggi e partiu a vuscarisi u pani dda ncapu. Poi urtimamenti ncuntrai a so soru o cimiteru e mi rissi ca muriu puru. Mancu iddu si maritau chiù; signali ca nun ci arriniscì a scurdarisilla, ma nun turnà chiù o paisi.
Ora ti ricanuscivu Giuseppi: tardu vinisti a pigghialla, un ci sta chiù nuddu cca. A casa però idda è, giustu ta ricordasti. Ma sa vo viriri agghiri o primu cimiteru.
Ero frastornato e contrariato. Quella vecchia pazza mi toccava il viso, mi stringeva le mani. Nauseato mi liberai dalle moine della stolida. Ridetti un ultimo sguardo alla casa desolatamente abbandonata e corsi subito in macchina. Mi girava la testa. Vaffanculo, pensai. Lasciai quel luogo in fretta, come fuggendo, non so neanche io da cosa. Ma l’oppressione non mi aveva abbandonato. Non era per la giacca, di cui in fondo non mi importava un fico secco. Sentivo l’angoscia all’altezza dello sterno. La strada scendeva al di sotto della biviratura nel cui slargo ebbi il tempo di notare due bambini con i vestiti sporchi di fango che si accanivano a insudiciare un povero handicappato dalla testa enorme. Idrocefalo. Accelerai. Basta. Tirai un lungo sospiro. Imboccai la strada di contrada San Gaetano e in breve mi ritrovai all’altezza del primo cimitero. Dopo la curva, lungo il rettilineo che porta al secondo cimitero, ero nel punto esatto dove avevo visto Anna la prima volta. Ebbi in un lampo un’ultima tentazione. Frenai. Un automobilista dietro – per poco non mi sbatteva – strombazzò il clacson stizzito e superandomi fece ripetutamente il gesto di toccarsi la tempia con un dito. Feci inversione e dopo cento metri posteggiai nella stradina laterale di ingresso al primo cimitero. Era l’antivigilia della festa dei morti. Entrai. Qui una pace assorta sommergeva ogni cosa. Il temporale aveva lavato le stradine interne e le lapidi. Ristagnava un odore penetrante di terra umida misto a fiori in putrefazione. Due vecchiette armeggiavano con secchi e stracci a pulire una sepoltura. Una giovane vedova in lutto stretto fissava la foto del marito morto da poco e dondolava impercettibilmente il busto. Ecco il custode del cimitero a fianco di una moto l’ape a tre ruote. Scendeva delle corone di fiori e le posava presso il muro della camera mortuaria dove gli ultimi uomini di un corteo funebre ancora si attardavano dopo la cerimonia e l’accompagnamento di un defunto. Si vedeva dentro l’angusta camera la bara di legno lucido con i manici laterali in ottone e una grande croce sopra. Alla spicciolata gli ultimi rimasti si facevano la croce, salutavano e andavano via. Non sapevo neanche cosa esattamente cercassi, ma continuai a vagare per il cimitero che era molto vasto, antico e con vetuste cappelle, statue e monumenti d’ogni genere, anche di pregevole fattura. C’erano cappelle gentilizie in stile arabo, normanno, neoclassico. Stele di marmo travertino, croci, santi, obelischi. Vidi innumerevoli foto di defunti, lessi altrettanto innumerevoli epitaffi ed iscrizioni devozionali. Forse sentii la campanella che annunciava l’imminente chiusura del cimitero, ma non vi feci caso e non mi affrettai all’uscita.
Continuai a girovagare tra le lapidi e i monumenti.
Entrai nelle chiese, passai in rassegna gli avelli, scesi a un certo punto nei colombari, cioè nelle catacombe sotterranee dei defunti più poveri, sepolti uno sopra l’altro in muri altissimi di corridoi bui e fetidi.
Le candele rossastre proiettavano ombre inquietanti alle pareti e i visi delle foto al danzare della fiamma sembravano sinistramente rianimarsi.
Persi la cognizione del tempo.
Adesso era piena notte. Il cielo era di un blu terso e la volta delle stelle era bellissima sopra la mia testa.
Alla pallida luce di una luna piena stranamente vicina, al suono dei grilli, al luccicare delle lucciole e dei fuochi fatui che fuoriuscivano dalle fenditure delle lapidi più vecchie ormai erbose, vagai senza pensieri.
Ululati di cani ogni tanto si inseguivano perdendosi nella lontananza di contrade di campagna.
Non so a che ora precisa della notte fu che qualcosa attirò la mia attenzione, risvegliandomi dal narcotizzante deambulare.
Mi sembrava una sagoma in piedi ed ebbi paura. Mi accorsi che invece era qualcosa di scuro che pendeva da una lapide. Mi avvicinai lentamente.
Con grande stupore notai che era la mia giacca.
La giacca che avevo usato per coprire le spalle tremanti di Anna.
Mi avvicinai ancora di più e guardai la tomba. Nella foto riconobbi Anna.
Era vestita esattamente come l’avevo vista poche ore prima. Riconobbi tutto, compreso il neo nella guancia. Rimasi stupefatto dalla rivelazione.
Avevo dunque incontrato un fantasma.
Ero impietrito, incapace di muovermi, di prendere qualsiasi decisione. Non riuscivo a capacitarmi di quello che mi era avvenuto.
Pensavo, cercavo di mettere in ordine i miei pensieri senza riuscirvi. Erano una matassa ingarbugliata.
Perché il fantasma si era manifestato proprio a me? Era Anna che mi aveva attirato alla sua tomba guidando segretamente i miei pensieri? Che voleva da me il fantasma? Il viso della foto sembrava vivo e sorridermi dolcemente.
Ebbi paura.
Sconvolto voltai le spalle e mi avviai risoluto alla ricerca dell’uscita.
Finalmente mi ero risvegliato dal torpore e stavo vincendo il lugubre incantesimo. Ecco lì in fondo il cancello principale. Accelerai il passo.
Dovevo scavalcare e salvarmi da quell’atmosfera opprimente.
Raggiunsi il cancello di corsa. Feci per scavalcare ma, mio Dio: appena afferrai le sbarre per darmi lo slancio e salire in piedi mi accorsi che il mio corpo poteva attraversare il cancello chiuso senza nessuna opposizione.
Mi accorsi che non avevo più un corpo materiale. Potevo entrare e uscire dal cancello chiuso perché ero fatto di spirito!
Capii in quel momento che ero morto e che la vecchia del quartiere di Santu Vituzzu non era affatto pazza.

Nessun commento: