lunedì 22 agosto 2011

Poesie





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Nel preciso istante in cui il cuore di Ludovico Corrao emise l’ultimo battito, un orologio a pendolo della Sala Gialla del Palazzo dei Normanni si fermò; e il vecchio commesso ebbe un tremito di terrore per la vacuità smisurata del silenzio, la fissità dei soprammobili secolari, il tintinnare delle grandi vetrate.
Nel preciso istante in cui il coltello recise la carotide in una crepa del cretto di Gibellina spuntò un filo d’erba; nel cielo profondo cadde una stella, oppure nacque, non ricordo.
In quel preciso istante nella canicola calcinante dell’agosto le cicale di Gibellina cantarono più forte la loro prosodia binaria e in una casa anonima della Grecia l’armadio più antico scricchiolò per l’ultima volta nello spasimo di un estremo ricordo di boschi lontani, di legni di navi, di sentori di muschio, di nidi, di sentieri segreti.
Nel preciso istante in cui esalò l’ultimo respiro una folata di vento lambì a lungo la Torre dei Colombi del castello diroccato di Calatubo rimbombando di echi nella solitudine vuota delle sue pareti circolari e i colombi scossero la testa e smisero il loro tubare gutturale insistito.
In quel preciso istante un anziano contadino, con un fazzoletto a nodini sulla testa, zappando intonò un canto d’amore d’altri tempi in un’ottava strascicata che si propalò a intermittenza nelle lontane contrade della campagna; un fuoco crepitò nella valle, una foglia si accartocciò e cadde dal ramo, un rivo continuò a scivolare tra due pietre, un cane annusò una pista di una lontana esistenza precedente e abbaiò di nostalgia, un gabbiano ad ali spiegate sfruttando le correnti ascensionali sentì la brezza salata del mare distante, ancora invisibile.
Nel preciso istante in cui Ludovico Corrao spirò riaffiorarono le orme di Empedocle nei passi dell’Etna sotto al cratere.
In quel preciso istante un gelsomino selvatico profumò per le narici di nessuno, perché non c’era nessuno a sentirlo, nell’acciottolato affondato nelle stoppie riarse di un patio di una casa abbandonata sul monte Bonifato, nella frescura molle dell’ombra di un muro.
Quando morì accadde che un uomo a Buenos Aires, nel quartiere “Palermo”, che non aveva mai sentito parlare di Ludovico Corrao in tutta la sua vita, mentre camminava in strada soprappensiero seguendo il triste ritmo dei tacchi e delle suole di cuoio delle sue scarpe sul marciapiede e stava per bussare a un campanello fu raggiunto da un’immotivata raffica di felicità che gli travolse il cuore e dovette fermarsi e appoggiarsi al portone e respirare lentamente e non seppe mai che era il richiamo del sangue della lontana terra degli avi di Sicilia, un aggrumarsi di lotte contadine e di canti, di pane spezzato, di comizi di piazze, di speranze e di “contradanze” e tamburelli sotto uliveti oltre l’oceano in tempi andati.
Nel preciso istante in cui morì tutte le porte del Baglio Di Stefano si spalancarono da sole.
Quando morì qualcuno si accorse che anche il proprio respiro era diventato più lento e profondo e cominciò a pensare al suo respiro, a ogni inspirazione e ad ogni espirazione, ed ebbe l’intenzione di contare i respiri senza sosta fino al risveglio, fino all’illuminazione.
Nel preciso istante in cui spirò Ludovico Corrao tutti fummo Ludovico Corrao anche se fu solo un attimo.
Avvennero strane cose quando morì Ludovico Corrao, in quel preciso momento: una frana imprigionò il vento di scirocco in una grotta e continua a girare e girare lì dentro senza sosta senza poter più uscire; una megattera in amore cantò nelle profondità del mare l’ultima volta e si arenò come a un richiamo del suo innamorato nell’eutanasia di una spiaggia di Aci Trezza; Cola Pisci per salutarlo prima del suo viaggio tra le stelle riemerse dalle profondità della Sicilia lasciando la colonna senza sostegno e per un istante – l’istante singolo e preciso in cui morì – rischiammo di sprofondare.
Nel preciso istante in cui morì Ludovico Corrao accadde tutto, o forse continuò ad accadere tutto, o forse non accadde nulla veramente, perché nulla veramente accade nel mondo.
Quando morì Ludovico Corrao regalai uno zufolo intagliato nella canna di un canneto di Gibellina a mia figlia, un marranzano all’altra figlia, e mi misi a cantare e a lottare, come lui ci aveva insegnato.

Baldo Carollo

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