mercoledì 20 ottobre 2010

Il Sogno Mediterraneo. Ludovico Corrao. Intervista di Baldo Carollo






Ludovico Corrao, intervistato da Baldo Carollo, ripercorre in questo libro sessant’anni di vita e di storia siciliana, dagli anni Cinquanta in poi: il milazzismo, il caso Franca Viola, la mafia, il terremoto del Belice, la ricostruzione di Gibellina, la Fondazione Orestiadi, l’amicizia e la collaborazione con alcuni dei maggiori artisti ed intellettuali del Novecento, da Leonardo Sciascia a Pietro Consagra, da Carlo Levi a Danilo Dolci, da Mario Schifano ad Alberto Burri.

Il senatore Corrao delinea così il progetto che ha ispirato il suo impegno politico per il rilancio della Sicilia come Isola-oasi al centro del dialogo interculturale tra i popoli del Mediterraneo.

mercoledì 14 ottobre 2009

Fantasma

Fantasma





Pioggia mista a grandine, crepitii amplificati dall’abitacolo, picchiettii sul tetto, sul cofano, sul vetro della Ford Transit. Di tanto in tanto una gragnola come una raffica di mitra. Pace del non tempo di un temporale autunnale.
Il tergicristallo azionato a tutta, con un suono distante di risucchiato gemito, permetteva a malapena la vista di qualche metro di strada allagata.
Non m’inquietai, anzi in queste circostanze mi rilassavo.
Viaggiavo per lavoro tutti i giorni, a quei tempi. Rappresentante di una ditta di vestiti. Facevo il giro dei negozi di abbigliamento delle province di Palermo, Agrigento e Trapani. E in strada ne avevo viste di tutti i colori.
Rallentai sulla bretella che collega l’uscita autostradale di Alcamo-est alla provinciale Alcamo-Alcamo Marina.
Svoltai per Alcamo. I temporali mi erano sempre piaciuti.
Sembrava ieri. Pensai a quella volta che, bambino, mia madre mi sgridò solennemente perché ero rientrato a casa bagnato fradicio dalla testa ai piedi. Uscendo dalla scuola mentre imperversava un temporale con fulmini e boati mi ero incamminato senza meta nelle strade del paese deserto ed ero tornato solo a sera. Non saprei dire cosa avevo fatto per quelle ore: avevo vagato. Adoravo vedere le cose attraverso la pioggia. Ricordo solo che camminavo lentamente in una calma beata mentre mi penetrava una freschezza irresistibile. In quei momenti mi assaliva una specie di tristezza eroica, solitaria, e tutto appariva nella sua verità. Ma non saprei spiegare. Le parole sono inutili se non lo hai mai provato. Quella tristezza mi rendeva partecipe di un segreto inaccessibile, in una landa eterna di libertà malinconica. Mi stupii del tempo passato. Appena un attimo fa era quel bambino e dopo quest’attimo – milioni di attimi identici quindi un solo attimo – ero già qui a compiere il mio giro delle province. Ma chi ero veramente? Che ci facevo al volante?
Focalizzai ancora per un istante l’insegna Alcamo; quella con la scritta Alcamo Marina invece indicava verso destra. Guardando alternativamente dagli specchietti laterali – dal retrovisore interno vedevo una fila di vestiti pendenti nelle grucce allineate a una stecca – notai che non c’era nessuno dietro. Né davanti. Mi cullavano la sinfonia battente della pioggia, lo strascico felpato con singhiozzo ritmico dei tergicristalli, le cascatelle dell’acqua che si alzavano da sotto le gomme, il tintinnare ferroso delle grucce con i vestiti appesi.
Da almeno un’ora non incontravo anima viva. Nessuna macchina. D’altronde con quella burrasca. Solo un po’ prima – un po’ quanto? Avevo perso la dimensione del tempo – avevo intravisto ai margini della strada, in un vigneto digradante, un gregge con il suo pastore. Visione di due secondi: un tipo alto, quasi monumentale, con una lunga barba grigia, le pecore ferme, una verga in mano. Neanche a lui sembrava importare nulla del temporale. Mi fissò al passaggio. Mosè pascola le sue pecore. Pensai anche a un pastorello di terracotta del presepio di mia nonna.
Allungai il braccio destro e presi il pacchetto rosso e bianco con la scritta Marlboro. Associazione diretta con la Ferrari. Sfilai una sigaretta, l’annusai, me la misi in bocca senza accenderla. Gettai di nuovo sul sedile il pacchetto che fece un muto sobbalzo sulla stoffa blu e si riposizionò accanto a una penna Bic nera senza astuccio, a un’agenda con copertina di cuoio sciupato tutta gonfia di pizzini inseriti, all’accendino di metallo a petrolio – che era stato di mio padre –, agli occhiali da sole, al mazzo di chiavi tra le quali spiccava quella verniciata verde della porta della casa sul mare. Vi abitavo solitario da tre anni. Le stanze mute – pensai – mi aspettavano nella loro disumana immobilità. Immaginai, anzi mi sembrò di vedere, i soprammobili, le tende, le maniglie delle porte. Il monotono rumore delle onde sulla battigia. Solitudine.
Sul cruscotto era attaccato un foglio giallo con gli ordini dei negozi. Nome, via, numero, telefono, ordinati in colonne.
Dalle cunette come due fiumi fangosi tracimavano sull’asfalto tingendolo di marrone. Le gocce nell’attimo in cui sbattevano a terra formavano sulla strada allagata miriadi di minuscole conche. Individuai l’accendino, riallungai il braccio, lo presi, feci una pressione col pollice destro sulla rotellina dentata che sfregò la pietrina, scintillò, si generò una fiamma troppo grande, una fumata e un acre odore di petrolio. Accesi la sigaretta. Aspirai avidamente il fumo che per un attimo avevo fatto galleggiare dentro la bocca semiaperta. Lo tenni a lungo nei polmoni, infine con una lunga espirazione lo diressi sopra una mosca che, imprigionata nell’abitacolo, tentava testardamente una vana evasione sbattendo la testa sul vetro. Impossibile varco. Fu sommersa dal fumo, poi cambiò volo uscendo dalla vista. Il suo sibilo si interruppe. Si risentì a tratti, coperto dalle mitragliate della grandine.
Classico temporale di fine ottobre.
Un sole tisico non riusciva proprio a farsi spazio dietro la fitta coltre di nubi.
Pur essendo ancora le 16.00 c’era già un buio notturno.
Non ero ancora giunto al curvone del cimitero vecchio – gli alcamesi lo chiamano “primo cimitero” – che notai una giovane donna proprio sotto l’impazzata del temporale. Sola, camminava con passo di felino. A parte lo stupore, la cosa che mi attrasse di più fu l’avvenenza dell’incedere. Le forme del corpo, sotto un vestito demodé di seta bianca, prorompevano sensuali. L’acqua attaccava la sottile stoffa alle cosce ben tornite, i glutei serici sballottavano a ogni passo, le caviglie erano sicure sui tacchi. Notai il caschetto dei capelli anni Trenta, la borsetta minuscola, le reggicalze in trasparenza. Spensi la sigaretta. Rallentai, l’affiancai, abbassai il finestrino.
- Ha bisogno di qualcosa?
La donna si girò lentamente, continuando a camminare. Era pallida ma gli occhi ardevano. I capelli biondi, bagnati, attaccati alle guance. Un neo proprio al centro della guancia sinistra. Bellissima. Non avrei mai più dimenticato quello sguardo ardente diretto a me e insieme verso il centro del nulla. Come uscisse da altre coordinate spazio temporali. Un tuffo al cuore.
Procedevo al suo passo.
- Avanti salga, non abbia timore.
La donna allungò il braccio verso la maniglia dello sportello. Un attimo dopo sedeva al mio fianco; tutta bagnata guardava fisso davanti. Il torace al respiro le si alzava ed abbassava. Sotto il vestito di seta, reso trasparente dalla pioggia, ad ogni inspirazione affioravano le costole parallele. Un roseo seno prosperoso. I capezzoli induriti. I pori della pelle d’avorio. Pelle d’oca.
- Aspetti ancora, dissi.
Trangugiai saliva, il pomo d’Adamo salì e scese nel collo.
Con una torsione del tronco, il mio braccio teso raggiunse il sedile posteriore, sormontato dai vestiti dondolanti. Stirando l’indice al massimo agganciai la giacca dietro. La sistemai sulle spalle di lei.
- Se la metta, morirà dal freddo.
La donna rimase indifferente a fissare davanti un punto invisibile. Solo un angolo della sua bocca si mosse ad accennare un sorriso. Poi sembrò riassorbita in sé. Il contatto con l’omero esile mi fece rabbrividire. Sensazione mista di sensualità e di angoscia. Per un momento mi invase il sospetto di essere dentro un sogno e non nella realtà. Era come se mi vedessi da fuori; percepivo le cose in uno stato di maggiore intensità emotiva. Ebbi la sensazione di aver già vissuto quella scena. I déjà vu mi capitavano spesso. Una volta ne parlai con uno zio prete, Don Baldassare, molto anziano e di letture originali. Lo zio mi riferì una credenza antica, di dubbia origine, tratta dall’esoterismo persiano e indiano. Che ogni cosa che facciamo l’abbiamo già fatta, come in una specie di tempo circolare eterno. E torniamo a fare ed incontrare le stesse cose e persone. Solo che non ce ne ricordiamo perché il tempo della nostra anima non si misura con l’esistenza presente ma con tutto il ciclo delle nostre esistenze passate e future.
- Ma non diciamolo al Vescovo, altrimenti mi manda in mezzo alle vacche a dire messa! A Grisì, perlomeno mi manda! La battuta dello zio.
Eravamo seduti a un tavolino per la solita partita a scacchi del sabato mattina in sacrestia. Mi ricordo del bicchiere di vino rosso, della sua risata prolungata, degli occhi malinconici, profondi.
- Come si chiama signorina? Dissi con voce ferma.
- Anna.
- Io Giuseppe. Ma si può sapere che faceva sotto un temporale così? Dove andava, caspita?
- Mi sono persa.
- Meno male che ha incontrato me. Se permette l’accompagno a casa.
- Grazie.
- Lei sta tremando dal freddo.
La donna mi sorrise ancora, grata, poi continuò a guardare avanti, assorta nei suoi pensieri. Era di una bellezza fatale. Mentre guidavo non potevo evitare di far cadere ogni tanto lo sguardo su quelle cosce perfettamente tornite all’altezza dell’orlo di seta del vestito. La sua attrazione su di me era allo stesso tempo sensuale e spirituale; i due piani coincidevano. Mi sembrava di conoscerla da sempre. Il déjà vu persisteva: io avevo già vissuto quella scena. Mi stava accadendo una cosa che mi doveva accadere per destino. Per qualche secondo rimasi ipnotizzato. La desideravo. Avrei avuto voglia di possederla, lì, in quel momento, sotto il temporale.
- In che quartiere abita Anna?
- Santu Vituzzu.
Lo conoscevo bene. Era il vetusto centro storico di Alcamo. C’eravamo già dentro. Una sorta di Medina con stradine, cortili, balaustre su dirupi, scalinate, case sbilenche, semidiroccate, abbandonate da secoli. Il vecchio quartiere che si snoda attorno alla biviratura araba. Qui gli islamici costruirono il primo nucleo del casale di Alqamah.
Svoltai a sinistra lasciandomi dietro la prima chiesa madre di Alcamo, Santa Maria della Stella – sommersa nell’oblio di un abbandono secolare – e una grande croce di ferro arrugginito posta su un piedistallo di marmo dov’é impressa, in una cornice ovale, l’effige della Madonna Addolorata: “A Santa Cruci”. Salii per un budello lastricato in blocchi di travertino, scesi ancora a sinistra, costeggiai la Biviratura. Salii ancora e mi trovai dentro il dedalo labirintico di case in calce. Il quartiere era deserto. Sembrava che tutti fossero fuggiti in un tempo lontano. Le case basse, con archi di pietra a secco, chiuse o abbandonate, i portoni di legno rugoso con la vernice sbiadita, i canali, le tendine polverose, i muri inquacinati gibbosi e scrostati. In molti portoni era affisso – chissà da quanti decenni ormai – un rettangolo di stoffa nera obliqua, in segno di lutto. Negli anni Ottanta e negli anni Novanta due guerre di mafia avevano fatto fuori due generazioni di ragazzi proprio di questo quartiere. Un anziano poliomielitico, depositato a terra, con le gambe rinsecchite, incrociate, davanti a un uscio, fissava con occhi inespressivi una crepa, diramata come un fulmine, nel muro di fronte. Una vecchia, imbacuccata di vesti nere e sciallina in spalle, lavorava a un telaio su una sedia impagliata; il suo viso contornato dal velo nero sembrava una maschera grinzosa come quelle che a Carnevale le cartolibrerie espongono nelle vetrine. Un mulo, col suo basto di legna e fieno, batteva uno zoccolo a terra e muoveva le orecchie per scacciare le mosche. Molte strade si perdevano nel nulla di cortili in terra battuta o, senza soluzione di continuità, nella campagna. A tratti tornava il sole e, con potenti cambi di luce, disegnava i profili d’ombra delle case sulla strada vuota. Uno strano silenzio avvolgeva ogni cosa. Quel quartiere trascinava la sua vita in una lunga, fatata eutanasia. Il tempo non sembrava toccarlo. I pochi rimasti continuavano a vivere come cinquanta o sessant’anni prima. Galline scorazzavano in un cortile becchettando a terra qualche mollica con il loro petulante chioccio, le cicale intonavano la loro prosodia monotona, si udiva a intermittenza il tintinnio di campanelle al collo da ovili non lontani. Un’atmosfera malinconica, come in tutti i quartieri degradati.
- Sono arrivata.
Mi guardò e sorrise con dolcezza. Non potevo farmela sfuggire così. Dovevo trattenerla. La sua semplice presenza mi faceva battere forte il cuore nel petto.
- Ascolti Anna, tenga pure la mia giacca adesso, lei è ancora tutta infreddolita. Io faccio il giro solito dei negozi. So già che il mio lavoro mi porterà via tre ore. Alla fine, se non le dispiace, mi vengo a riprendere la giacca e così abbiamo l’occasione di bere un tè caldo insieme e scambiare due chiacchiere. Le va?
- Va bene, sorrise.
La vidi attraversare la strada, infilarsi in una stradina e svanire dentro l’ombra di un portone.
La vecchia grinzosa alzò gli occhi dal telaio e mi fissò insistentemente. La ignorai.
- Allora abita lì? Dissi ancora, alzando un po’ la voce per farmi sentire dall’interno dell’abitacolo.
- Sì.
- Ci vediamo tra poco.
- L’aspetto.
Feci il mio lavoro con febbrile svogliatezza. In realtà pensai continuamente a lei. Ma non mi sentivo come avrei dovuto, anzi piuttosto depresso. Possibile che un incontro di cinque minuti mi poteva sconvolgere? Che fosse un colpo di fulmine? Sorrisi tra me alzando una spalla. Avevo già passato l’adolescenza da un pezzo e neanche allora ero così romantico da credere al colpo di fulmine. Eppure tornavo a pensare a lei. Qualcosa di inesplicabile mi legava a quella donna. E poi quella strana sensazione di averla già conosciuta. Ne ero del tutto sicuro, ma più cercavo di capire in che modo e più i pensieri si sfocavano. Ero ad un passo dal capire ma poi perdevo il bandolo. Come quando entri nella tua stanza e ti accorgi al volo che c’è qualcosa fuori posto ma non riesci a individuarla, ti sfugge, e poi all’improvviso: ecco cos’era! Ma nel mio caso tutto si risolveva in nebbia, in una sensazione di attrazione e mistero incombente.
Completai il mio giro con il negozio di Santino. Lo lasciavo sempre per ultimo perché eravamo amici e mi concedevo una chiacchierata di rito con lui alla fine. Ci fumammo una sigaretta. Santino aveva qualche anno in più di me, capelli brizzolati; solitario ed elegante. Come me non si era sposato e aveva sul viso un’ombra, un’inquietudine. Gli parlai del mio incontro con Anna. Si grattò la testa, non riusciva ad inquadrarla e la cosa gli sembrò strana perché in quel quartiere conosceva tutti fin da bambino.
Niente. Buttai il mozzicone a terra, gli strinsi la mano, misi in moto. Salii dritto, superai la via Porta Stella – un’antica solitaria stradina piena di edicole votive, i fiureddi – , raggiunsi il Castello, un lampo del sole redivivo abbagliò il parabrezza accecandomi per un attimo, svoltai dalla Via Commendatore Navarra, scesi giù da Piazza Bagolino ed arrivai di nuovo nel cuore del quartiere Santu Vituzzu. Sbattei lo sportello, mi guardai intorno. Dunque era qui che l’avevo lasciata e quella è la casa. Il portone dava in un cortile che veniva interrotto da un enorme muro di blocchi di pietra squadrati. Era un pezzo delle mura medievali di cinta, sopravvissuto all’ingiuria dei secoli e delle devastazioni. Su di esso un rampicante apriva penduli fiori arancione che da bambini chiamavamo sucameli perché, succhiandoli da sotto, davano un sapore fresco e zuccheroso. Api e calabroni mischiavano i loro ronzii come sibili di mantra tibetani nell’umida calura. Un cancello mangiato dalla ruggine immetteva in un religioso silenzio d’orti.
Giunto davanti al portone mi resi conto che non c’era alcun campanello.
Picchiai il legno con il battente di ferro arrugginito a forma di testa di leone.
Tutta la casa riecheggiò di rimbombi dalle fondamenta.
Ebbi immediatamente la certezza che era disabitata. Disappunto. Mi guardai di nuovo intorno. Nessun’anima viva. Tornai a picchiare ancora più forte. Feci tre passi indietro. Squadrai tutta la casa.
Un geranio in un vaso sul balcone mezzo divelto era totalmente secco. Non c’erano più dubbi: era deserta e anche da molto tempo.
Mi accesi deluso l’ennesima sigaretta.
Il fracasso del battente aveva attirato la vecchietta dal viso rugoso, che, lasciato il telaio, si era alzata e curiosava apertamente dandosi appena un contegno col fare finta di spazzare il marciapiede.
Colsi l’occasione.
- Scusi tanto, ma la signorina Anna non abita qui?
Mi guardò allocchita, poi si avvicinò, sostenendo i suoi passi malfermi con la scopa.
- Comu rici? Ripitissi pi favuri. Aveva occhi azzurri e acquosi, uno dei quali ottenebrato da una cataratta.
- Sì, dicevo: stamattina ho lasciato la signorina Anna a casa sua e adesso dovevamo rivederci. Ma non abita qui?
- Nna sta casa nun ci sta chiù nuddu da sessant’anni.
- Ma se appena tre ore fa ho dato un passaggio a una ragazza di nome Anna e l’ho vista entrare coi miei occhi in questo portone!
Mi ha visto pure lei, ricorda? Stava seduta al telaio lì di fronte e ci guardava.
- Sintissi giuvini: veru è chi stamatina la taliavu quannu si firmà cca, ma lu sapi picchì? Picchì mi paria – cu rispettu parrannu – un foddi chi parrava sulu.
- Ma come sarebbe? Parlavo solo? Non ha visto la ragazza? Possibile che abita qui e lei non conosce Anna? Mi stavo spazientendo con quella vecchia bacucca.
Per un attimo sembrò rianimarsi, scuotersi.
- Scusassi, ma comu rici chi si chiamava sta picciuttedda?
- Anna si chiama.
Il suo occhio limpido si fece più attento e fisso. Tornò a scrutarmi dalla testa ai piedi e poi all’inverso dai piedi alla testa. Mi dava ai nervi. Le mani ossute, piene di vene varicose le tremavano. Aveva il Parkinson.
- Attintassi: veru sessant’anni narré cca ci stava na signurina chi si chiamava Anna. Na bedda signurina: stavamu tuttu u jornu nsemula, aviamu crisciutu comu soru di quann’eramu picciriddi, chi ghiucavamu cu i bamboli ncapu stu scaluni; picchì la so casa era a tuccari cu chidda me. Ma poi idda murìu. Muriu di disgrazia: si lassò moriri nnu lettu p’amuri d’un picciottu.
Restai interdetto. Un brivido mi corse dietro la schiena. Non saprei dire perché. Forse per la situazione surreale, e forse perché la vecchia continuava a lanciarmi sguardi in modo morboso.
- Mi ricissi natra cosa picciottu, – la vecchia si appoggiò al mio braccio e, ingobbita, mi scrutò da sotto in su col suo occhio sano, azzurro più che mai, avvicinandosi in modo spaventoso – ma lei comu si chiama?
- Giuseppe.
- Ah mu mmagginavaa, ebbe come un sorrisetto d’oltretomba, ma era innocua. Poverina doveva essere mezza tocca per via del Parkinson.
- Ma perché mi continua a guardare così, signora? Che fa mi conosce?
- Certu ca ti canuscivu! All’iniziu mi meravigghiavu assai, taliannuti e ritaliannuti, ma ormai sugnu vecchia e naiu vistu troppi cosi pi meravigghiarimi ancora. Ormai haiu chiù cunfirenza cu i morti chi cu i vivi. Aspettu sulu chi u Signuri m’arricogghi puru a mia.
Accussì perciò turnasti! Ta vinisti a pigghiari?
Ciò detto si fece la croce tre volte di seguito. Una lacrima le scivolò sulla guancia. Era del tutto evidente che mi scambiava con qualcun’altro e che al contempo fosse del tutto andata con la testa. Probabilmente alternava momenti di lucidità a momenti di obnubilamento. Dalle nostre parti la gente comune non va tanto per il sottile distinguendo negli anziani la pazzia, l’estrema vecchiezza, la perdita di memoria, l’Alzheimer, il morbo di Parkinson. Si usa dire che perdono colpi, che hanno l’arterii scurusi, l’arteriosclerosi, facendo di tutta l’erba un fascio. Questa era combinata così, non c’era dubbio. Ciò nonostante sperando mi desse una dritta per ritrovare Anna le diedi ancora corda.
- Sì, signora, sono venuto a prendere Anna. Ma non abita davvero qui? O in un altro portone? Sembra tutto disabitato il cortile…
- Ca certu ca stava cca. T’aspittà finu a la morti, t’aspittà. T’aspittà eternamenti.
- Mi racconti signora.
Riattaccò a parlare con la sua voce melodica e quasi in falsetto.
- E chi te cuntari a tia? So patri era troppu tintu cu idda, ed eranu puru autri tempi. Quannu u patri ricìa no era no. Annuzza era però un ancilu e l’ancili arraggiunanu megghiu cu i cieli ca cu l’omini. Perciò quannu so patri la nchiusi a chiavi rintra a so stanza, idda si curcau e dissi chi si un putia avillu nta sta terra allura l’avissi avutu ntall’atra terra, ncelu. Si fici a cruci e dissi: sia fatta a volontà di Diu. Un vosi chiù manciari. Avogghia a matri di priarla: nun ci fu chiù nenti di fari. A picciuttedda si lassò moriri ricennu ca senza iddu nun putìa chiù campari e chi si so patri nun vulìa, macari c’era speranza ca vulìa u Patri eternu. Annuzza accussì iu narrè narrè comu u curdaru. Puru iu ci ia ogni ghiornu o capizzu du lettu a cunsularla, ma idda ripitìa sempri a stessa musica. Aspittava a iddu e dicìa ca u destinu era destinu. Doppu tri misi murìu. Era bedda di moriri puru nno lettu di morti.
- Ma il ragazzo non fece niente?
- U picciottu si scantau di minacci du patri chi era ntisu assai a u paisi d’Arcamu. E accussì pi scurdarisilla fici i valiggi e partiu a vuscarisi u pani dda ncapu. Poi urtimamenti ncuntrai a so soru o cimiteru e mi rissi ca muriu puru. Mancu iddu si maritau chiù; signali ca nun ci arriniscì a scurdarisilla, ma nun turnà chiù o paisi.
Ora ti ricanuscivu Giuseppi: tardu vinisti a pigghialla, un ci sta chiù nuddu cca. A casa però idda è, giustu ta ricordasti. Ma sa vo viriri agghiri o primu cimiteru.
Ero frastornato e contrariato. Quella vecchia pazza mi toccava il viso, mi stringeva le mani. Nauseato mi liberai dalle moine della stolida. Ridetti un ultimo sguardo alla casa desolatamente abbandonata e corsi subito in macchina. Mi girava la testa. Vaffanculo, pensai. Lasciai quel luogo in fretta, come fuggendo, non so neanche io da cosa. Ma l’oppressione non mi aveva abbandonato. Non era per la giacca, di cui in fondo non mi importava un fico secco. Sentivo l’angoscia all’altezza dello sterno. La strada scendeva al di sotto della biviratura nel cui slargo ebbi il tempo di notare due bambini con i vestiti sporchi di fango che si accanivano a insudiciare un povero handicappato dalla testa enorme. Idrocefalo. Accelerai. Basta. Tirai un lungo sospiro. Imboccai la strada di contrada San Gaetano e in breve mi ritrovai all’altezza del primo cimitero. Dopo la curva, lungo il rettilineo che porta al secondo cimitero, ero nel punto esatto dove avevo visto Anna la prima volta. Ebbi in un lampo un’ultima tentazione. Frenai. Un automobilista dietro – per poco non mi sbatteva – strombazzò il clacson stizzito e superandomi fece ripetutamente il gesto di toccarsi la tempia con un dito. Feci inversione e dopo cento metri posteggiai nella stradina laterale di ingresso al primo cimitero. Era l’antivigilia della festa dei morti. Entrai. Qui una pace assorta sommergeva ogni cosa. Il temporale aveva lavato le stradine interne e le lapidi. Ristagnava un odore penetrante di terra umida misto a fiori in putrefazione. Due vecchiette armeggiavano con secchi e stracci a pulire una sepoltura. Una giovane vedova in lutto stretto fissava la foto del marito morto da poco e dondolava impercettibilmente il busto. Ecco il custode del cimitero a fianco di una moto l’ape a tre ruote. Scendeva delle corone di fiori e le posava presso il muro della camera mortuaria dove gli ultimi uomini di un corteo funebre ancora si attardavano dopo la cerimonia e l’accompagnamento di un defunto. Si vedeva dentro l’angusta camera la bara di legno lucido con i manici laterali in ottone e una grande croce sopra. Alla spicciolata gli ultimi rimasti si facevano la croce, salutavano e andavano via. Non sapevo neanche cosa esattamente cercassi, ma continuai a vagare per il cimitero che era molto vasto, antico e con vetuste cappelle, statue e monumenti d’ogni genere, anche di pregevole fattura. C’erano cappelle gentilizie in stile arabo, normanno, neoclassico. Stele di marmo travertino, croci, santi, obelischi. Vidi innumerevoli foto di defunti, lessi altrettanto innumerevoli epitaffi ed iscrizioni devozionali. Forse sentii la campanella che annunciava l’imminente chiusura del cimitero, ma non vi feci caso e non mi affrettai all’uscita.
Continuai a girovagare tra le lapidi e i monumenti.
Entrai nelle chiese, passai in rassegna gli avelli, scesi a un certo punto nei colombari, cioè nelle catacombe sotterranee dei defunti più poveri, sepolti uno sopra l’altro in muri altissimi di corridoi bui e fetidi.
Le candele rossastre proiettavano ombre inquietanti alle pareti e i visi delle foto al danzare della fiamma sembravano sinistramente rianimarsi.
Persi la cognizione del tempo.
Adesso era piena notte. Il cielo era di un blu terso e la volta delle stelle era bellissima sopra la mia testa.
Alla pallida luce di una luna piena stranamente vicina, al suono dei grilli, al luccicare delle lucciole e dei fuochi fatui che fuoriuscivano dalle fenditure delle lapidi più vecchie ormai erbose, vagai senza pensieri.
Ululati di cani ogni tanto si inseguivano perdendosi nella lontananza di contrade di campagna.
Non so a che ora precisa della notte fu che qualcosa attirò la mia attenzione, risvegliandomi dal narcotizzante deambulare.
Mi sembrava una sagoma in piedi ed ebbi paura. Mi accorsi che invece era qualcosa di scuro che pendeva da una lapide. Mi avvicinai lentamente.
Con grande stupore notai che era la mia giacca.
La giacca che avevo usato per coprire le spalle tremanti di Anna.
Mi avvicinai ancora di più e guardai la tomba. Nella foto riconobbi Anna.
Era vestita esattamente come l’avevo vista poche ore prima. Riconobbi tutto, compreso il neo nella guancia. Rimasi stupefatto dalla rivelazione.
Avevo dunque incontrato un fantasma.
Ero impietrito, incapace di muovermi, di prendere qualsiasi decisione. Non riuscivo a capacitarmi di quello che mi era avvenuto.
Pensavo, cercavo di mettere in ordine i miei pensieri senza riuscirvi. Erano una matassa ingarbugliata.
Perché il fantasma si era manifestato proprio a me? Era Anna che mi aveva attirato alla sua tomba guidando segretamente i miei pensieri? Che voleva da me il fantasma? Il viso della foto sembrava vivo e sorridermi dolcemente.
Ebbi paura.
Sconvolto voltai le spalle e mi avviai risoluto alla ricerca dell’uscita.
Finalmente mi ero risvegliato dal torpore e stavo vincendo il lugubre incantesimo. Ecco lì in fondo il cancello principale. Accelerai il passo.
Dovevo scavalcare e salvarmi da quell’atmosfera opprimente.
Raggiunsi il cancello di corsa. Feci per scavalcare ma, mio Dio: appena afferrai le sbarre per darmi lo slancio e salire in piedi mi accorsi che il mio corpo poteva attraversare il cancello chiuso senza nessuna opposizione.
Mi accorsi che non avevo più un corpo materiale. Potevo entrare e uscire dal cancello chiuso perché ero fatto di spirito!
Capii in quel momento che ero morto e che la vecchia del quartiere di Santu Vituzzu non era affatto pazza.

venerdì 18 settembre 2009

fiala di siero 146. Tratto da Pen-sieri (libro inedito personale)


146.

E’ ormai piena notte ma continuo a indugiare tra i vicoli di Erice. Un dedalo inestricabile di venuzze e capillari delimitato da muri di pietre a secco e chiese sbilenche e consunte. Improvvisamente, come avviene spesso in questa cittadina, la nebbia cala e avvolge ogni cosa. Proseguo indolente, ipnotizzato dal corso dei pensieri e dal calpestio delle mie suole di cuoio. Amo perdermi nell’osmosi dei bronchioli di stradine acciottolate, scale, cortili, curvature, patii, chiostri, balaustre, vedute abissali fin giù a Trapani, alle saline, al mare sinuoso, alle isole Egadi; godermi il cielo nero, profondo, trapuntato di stelle luccicanti, lo sciame della Via Lattea. Ma ora la nebbia mi consente di vedere solo ciò che lambisco. A volte chiudo gli occhi e mi lascio accarezzare dal vento e dai suoni della notte. I lampioni illuminano piccole chiazze lattescenti di nebbia che si avviluppa su se stessa. Costeggio un cimitero ebraico con le tombe sconnesse, le lapidi mezze divelte. Non credevo che a Erice ve ne fosse uno. Entro dentro il cimitero, indugio sulle calligrafie di iscrizioni ebraiche che non so decriptare. Cammino oltre. Sono catturato da ogni cosa che percepisco, gustandola come fosse un’apparizione stupefacente. Senza accorgermene sono finito del tutto fuori mano. Ogni tanto sbucano dalla nebbia figure che un attimo dopo sono inghiottite nuovamente nell’impalpabilità biancastra: un uomo con baffetti spioventi, azzimato nel suo vestito stretto, si appoggia a un bastone nero laccato con punta d’oro e manico d’avorio a forma di teschio; nebbia; una coppia di anziani coniugi, forse centenari; nebbia; un cane con la coda in mezzo alle gambe, preannunciato dal ritmico tocco delle sue unghie sul marmo, mi scansa con un guaito, lanciandosi in un’accelerazione; nebbia; una donna in abito da sera di seta bianca (caschetto a scalare di biondi capelli) si accende una sigaretta all’estremità di un lungo bocchino d’argento; nebbia; un bambino – o un nano? – in calzoncini corti; nebbia; un prete con un cappello a falde larghe e la tunica nera; nebbia; una carrozza trainata da un cavallo con le ruote che cigolano. Nitrisce. Il suono degli zoccoli si smorza lentamente. Nebbia. Rintocca una campana da un alto campanile. Nebbia. Un pipistrello – che come me ha perso l’orientamento – quasi mi fa cadere il cappello. Mi sono perduto. Vago a una certa ora della notte per il bosco di Erice. Latrati di cani si rincorrono nelle lontane contrade della campagna. I grilli intonano il solito concerto di fischi. Sento dentro la nebbia a una distanza indefinibile scoppi di risa, brandelli di conversazioni, fitti sussurri. Non so individuare che poche insensate parole. Sarà un’allegra brigata di giovani che fanno le ore piccole. Non riesco a capire né dove sono né quanto tempo sia passato. Forse un’ora, forse due, ma ho la sensazione – come un sospetto – di camminare da un tempo infinito. Mi siedo su una roccia, respiro: seguo le mie espirazioni confondersi con la nebbia in spirali fumose. Mi accorgo di essere gomito a gomito con una coppia, credo staccatasi dal gruppo: si baciano appassionatamente.
La nebbia li rende diafani come una parvenza.
Lei si gira a fissarmi. Avvicina la testa fino a toccare la mia fronte e scruta, scruta a lungo. Poi inquieta dice al suo innamorato:
“Ma non hai anche tu l’impressione che ci sia qualcuno accanto a noi?”.
“Ma no, che dici”, risponde il giovanotto.
“Eppure potrei giurare di aver visto come il fiato di un uomo che faceva mulinare la nebbia, proprio qui accanto a me!”.
Trattengo il respiro, il giovane allunga le mani proprio nel punto esatto dove sono io. Le sue braccia, pur cingendomi, attraversano il mio corpo senza toccarmi. Rimango allocchito.
“Non vedi che non c’è che nebbia? E chi credi ci sia un fantasma? Vieni qui, sciocchina!”.
E ricominciano a baciarsi.
Spariscono in una densa folata di nebbia.
Io o loro?
Urlo: “Chi di noi è il fantasmaaa?”.
Nessuno risponde.
Nebbia e ancora nebbia.

mercoledì 28 gennaio 2009

Fiala di siero n°136

L'ultima cena 136.

Sono seduto a un tavolo. Il tavolo è così lungo che non riesco a vedere né a udire la persona che è seduta all’altro capo del tavolo. Ho subito pensato, chissà perché, che lo scopo è quello di mangiare e credo tutt’ora che prima o poi arriverà il primo piatto. Non so chi è il mio commensale all’altro capo del tavolo, o se piuttosto non sia io il commensale invitato. Non potrei stabilirlo perché non mi ricordo in quale casa sono. A rigore non potrei dire neanche che sia un pranzo. Potrebbe essere un colloquio. Sembra sicuro che all’estremità del tavolo debba esserci qualcuno. Ma è poi sicuro davvero? Chi può garantirlo? E se non c’è nessuno? Un’idea balzana per un attimo mi seduce: che sia un’ultima cena? E se fosse solo una mia predisposizione d’animo questa certezza di stare insieme a qualcuno? Potrebbe trattarsi di un ricevimento per un’udienza. Forse sono dentro a un carcere? Sì ma perché non debbo vedere con chi parlo? Forse la natura della persona con la quale devo parlare è troppo superiore alla mia? E non mi è dato di vederla? Di contemplarla? Possibile si possa trattare di un colloquio con il mio angelo custode? Con il mio giudice? Oppure con San Pietro davanti alle porte del cielo? Può essere che sia addirittura Dio in persona? Questa ultima conclusione mi sembra molto improbabile e narcisistica: perché Dio in persona dovrebbe parlare con me? Con me: un insignificante essere senza fede e pieno di peccati, di difetti! E poi chi dice che Dio esiste? Potrebbe essere Satana? O un suo lontano emissario? Ma anche Satana forse non esiste affatto. Sì, il bene e il male, va bene, ma perché pensare al Bene o al Male? Potrebbe darsi che il mio interlocutore non faccia parte della cultura umana, o, anche facendone parte, può essere che per lui le espressioni bene e male siano del tutto prive di significato. Le categorie potrebbero essere giusto e ingiusto, oppure bello e brutto, o alto e basso, o maschio e femmina, o pari e dispari, o buio e luminoso, o sostanza e accidente, o necessario e contingente, assoluto e relativo, o uno e due, finito e infinito, o qualsiasi altra cosa non pensabile dalla mente umana. Un extraterrestre? Potrebbe anche trattarsi di una cosa sola, di un’entità che non ha distinzione perché tutto ingloba. O con la distinzione ma dentro una unità. Può darsi infatti che tutti gli universi facciano parte di un solo organismo. Tornando alla stanza e al tavolo, non riesco nemmeno a stabilire se siamo di giorno o di notte, di mattina o di pomeriggio. Infatti sul lungo tavolo di legno c’è una luce diffusa un po’ cerulea, tenue; tale da poter essere sia una luce dell’alba, sia una luce del crepuscolo, sia una luce lunare, oppure una luce tisica di una di quelle grigie giornate invernali. Anche una luce al neon bluastro di una camera mortuaria. E, al contrario, potrebbe persino essere una luce estiva di solleone; solo che il tavolo potrebbe non essere vicino direttamente a un’apertura esterna. Sì, è vero, vedo una grande finestra con vetrata: ma chi mi dice che non dia in un’altra stanza a sua volta con un’altra finestra? Non riesco a vedere fuori da qui e una penombra diafana mi avvolge in tutte le direzioni. Comunque ammesso che sia in compagnia di qualcuno – che non faccia cioè parte della mia suggestione – : cosa dovrebbe dirmi questo qualcuno? O cosa dovrei dire io a lui? Chi ha convocato chi e per dire cosa? Meglio stare zitto e aspettare gli eventi. Ma fino a che punto mi conviene questa tattica? Magari sarebbe più semplice alzarmi e andarmene. E se davvero al capo del tavolo ci fosse Dio io che faccio mi alzo e me ne vado voltando le spalle a Dio? Ma poi andare dove? Non può essere invece proprio che tutto il mio cammino sia stato volto a questo tavolo, a questo incontro? Che tutta la mia esistenza e perfino tutto il karma delle mie esistenze presenti passate e future non preveda questo? E se mi alzo non lo torni a prevedere magari fra centinaia e centinaia di esistenze? Infatti ho una sensazione fortissima di déjà vu. Ecco, rifletto, il perché del mio dèjà vu: se mi alzo sono sicuro che tornerò prima o poi – e forse non è la prima volta che lo vivo – a vivere questo istante esattamente come in questo istante. Mi viene anzi il sospetto che non possa materialmente alzarmi. Meglio non provare. Devo comunque valutare bene prima di alzarmi o restare, non vorrei fare una scelta sconclusionata. Ma poi perché andare via? Io non ricordo perché sono venuto qui e dopotutto questa potrebbe essere la mia casa. Non ricordo nemmeno se sono venuto qui o se sono sempre stato qui, fermo dall’eternità. Non saprei dove andare e se sono arrivato qui vuol dire che questo posto deve rivelarmi qualcosa. E’ un tavolo di legno molto vecchio, pieno di graffi e liso, con qualche buco che attesta presenza di termiti. E’ evidentemente un tavolo secolare e in questo tavolo molti avranno appoggiato le mani, i gomiti, mangiato, bevuto. Mi giro intorno: in tutta la casa aleggia come una nebbiolina e non vedo altra mobilia, eccezion fatta per un lungo orologio a pendolo a muro il cui quadrante sembra emergere dalla nebbia di una stazione ferroviaria. E’ un orologio vetusto. Il pendolo continua ad oscillare lento e solenne ma una delle grandi lancette è divelta e caduta alla base dello schermo di vetro bombato, e evidentemente non è mai stata aggiustata. E’ la lancetta delle ore e quindi è impossibile stabilire l’ora. Le grandi vetrate delle finestre ora sono appannate e rigate di pioggia. Tintinnano. Sembrerebbe di poter concludere che quindi si affaccino fuori e che fuori piove, ma non mi sento di poter stabilire con certezza nemmeno questo. Infatti ho detto che nella stanza aleggia una nebbia e dal mio posto non posso stabilire se le gocce sono interne o esterne al vetro. In ogni caso considero sconveniente alzarmi in questo momento per andare a verificare. Il tintinnio dei vetri inoltre potrebbe essere dato da una qualche vibrazione sonora anche interna. La grande vetrata potrebbe dare in un’altra grande stanza o in un chiostro. Anche se è alquanto remoto che qualcuno costruisca una grande vetrata che dia semplicemente in un’altra stanza, pure la cosa non è esclusa del tutto. Potrebbe infatti anche darsi che la casa si sia espansa successivamente con altre superfetazioni e altre stanze e che la grande vetrata sia stata lasciata dov’era. Tutto è importante considerare e niente escludere a priori. La presenza della nebbia nella grande stanza potrebbe essere dovuta all’umidità, all’escursione termica, al vapore di qualche cucina non lontana. So solo di trovarmi in questa casa, seduto in un lungo tavolo di una stanza avvolta dalla nebbia. Con un brivido penso alla possibilità che io sia in realtà morto e che mi trovi qui come in un territorio di mezzo in attesa della mia destinazione nell’aldilà. Può essere che la mia destinazione dell’aldilà sia in realtà proprio questa, cioè lo stare seduto a questo tavolo per l’eternità e continuare a pensare all’infinito. Forse dovrei essere io il primo a profferire parola? Magari per vedere se c’è qualcuno nell’altro capo del tavolo. Veramente un eventuale silenzio di risposta non dimostrerebbe che non ci sia nessuno ma solo che se anche c’è qualcuno questo qualcuno non mi risponde. Magari ritenendo inopportuna la mia impazienza e la mia insolenza. Mi conviene cercare di resistere quanto più possibile ed aspettare in silenzio. Una sentenza del tao dice: “Chi sa non parla, chi parla non sa”. Così resto in silenzio, anche se il mio silenzio non significa che io sappia qualcosa, perché, come ho detto, non so assolutamente nulla. Nondimeno aspetto e valuto. Certo ogni soluzione è rischiosa e anche non parlare e non fare nulla, benché sia la meno rischiosa. Infatti può essere che dall’altra parte chi – sempre che ci sia – è seduto aspetti una mia parola e il fatto che io resti inane può danneggiare la mia situazione. Può essere che io abbia una grave colpa e che su di me si stia per pronunciare una condanna o un’assoluzione. Dunque devo difendermi o potrei essere condannato subito con l’aggravante dell’accidia o dell’ignavia del mio silenzio. Ma difendermi da cosa? E difendermi non equivale ad ammettere di essere accusato di una colpa? La difesa, comunque, non avendo elementi di nessun genere, è la cosa più giusta da fare; e la migliore difesa implica il non fare la prima mossa. Sì, devo solo difendermi: aspettare e rispondere con contromosse. Infatti attaccare senza conoscere l’avversario, la sua forza, equivarrebbe a una mossa avventata che non potrebbe che portare a una più probabile sconfitta. Inizio a ispezionare il tavolo. La sua superficie è vetusta, come dicevo, piena di graffi. Vedo che ci sono dei segni che sembrano barrette parallele, come quando nei carceri duri si segnano i giorni per orientarsi scavando con una punta solchi nel muro buio. Quindi credo che anche altri prima di me siano passati da questo tavolo. E abbiano aspettato – come me senza parlare né alzarsi – giorni e forse mesi. Infatti le barrette sono molte, sempre che il loro significato sia questo. Può darsi invece che siano solo segni casuali di un tavolo casualmente segnato dal tempo. Di quale colpa mi si può accusare? Certo vivendo ho commesso tanti errori. Ma gli errori sono colpe? E se anche fossero colpa la colpa è evitabile? Chi stabilisce una colpa? Gli errori li stabiliamo noi stessi e noi stessi le colpe in base al nostro giudizio? O devo pensare che ci sia un giudizio superiore e oggettivo? Un giudice supremo? Vivendo ho commesso gravi errori, sono stato vigliacco, ipocrita, recidivo, infedele, poco umano, poco generoso, egoista, pettegolo. Anche da me so giudicarmi e in base ai miei stessi valori. Certo ho forse combinato anche qualcosa di buono, credo di essere stato sensibile, riflessivo, profondo ma quasi mai ho messo in pratica le mie intuizioni e i miei convincimenti. Come un albero forte che però non ha dato frutti. Può darsi che il mio giudizio sia troppo duro e che abbia vissuto invece una vita normale come quella di tutti gli altri con i suoi alti e i suoi bassi. E può darsi che i frutti migliori di quest’albero della vita siano proprio i dubbi, le contraddizioni. Ma poi perché parlo al passato come se fossi morto e davvero dovessi rendere conto a qualcuno del bilancio della mia vita? Una parte di me pensa che ogni giorno avrei dovuto immaginare di essere a questo punto, ogni giorno della mia vita, e così agire con la dovuta fermezza. Ora invece non so proprio cosa fare. Ogni giorno in cui pensavo di cambiare vita e di essere più profondo e autentico rimandavo sempre. Ora mi accorgo di aver rimandato fino a quando non c’è stato più niente da fare; di aver sciupato la mia vita nel tran tran quotidiano delle non scelte. E mi ritrovo come sempre a tentare di scacciare anche l’evidenza di questa situazione. Spero infatti ancora di potermi svegliare e scoprire di aver fatto un incubo. Mi do un pizzicotto fortissimo nell’interno della coscia sinistra, sotto il tavolo. Non mi sveglio. Riesco non di meno a mantenermi freddo e a resistere a non parlare e a non alzarmi. Comunque non sono spirito altrimenti il pizzicotto non mi avrebbe fatto male. Ho ancora un corpo? Oppure dopo morti si mantiene la capacità di rapportarsi a un corpo e di provare dolore o piacere come se il corpo ci fosse ancora? Ho sentito dire di mutilati di guerra che provano ancora dolore nell’arto che non hanno più. Ma qual è la differenza tra morto e vivo? E tra sveglio e sognante? Mi chiedo poi se il giudizio e la colpa debbano per forza rapportarsi al bene e al male fatto durante la vita. E se non ci fosse affatto alcun giudizio? E se noi fossimo tarati al bene e al male solo per una nostra forma mentis voluta dal potere dominante per irreggimentare le coscienze? Comunque mi torna sempre in testa il tavolo come associato al cibo. E – come ho detto in precedenza – se fosse davvero il tavolo dell’ultima cena? E io fossi Giuda in persona tornato al tavolo per dirimere con Gesù Cristo la questione se fui ab eterno predestinato a tradirlo? Se io potei avere scelta? Se in realtà io non fossi un prescelto, un predestinato, da sacrificare per il compito più ingrato, arduo e nobile come il tradimento di Cristo? Mi chiedo se si può scegliere di peccare o se si è predestinati a peccare; se Giuda fu predestinato prima di nascere o fu scelto per i suoi meriti al grande compito di tradire. Ma poi se esiste la verità eterna dall’eternità ciò non implica che la più grande missione di verità sia tradire la verità? Sia cioè minare questo dittatoriale immobilismo chiamato eternità? Satana dunque fu un cercatore di verità? Il tradimento inoltre non verifica proprio che c’è una verità? Se la verità non si tradisce come può essere appurata? Può esistere la verità senza la necessità della falsità? Si può arrivare alla verità, alla sua consapevolezza, senza passare dalla consapevolezza della falsità? Come potrebbe distinguersi? Come la verità potrebbe essere il fine se non fossimo dentro la falsità? Quindi potrebbe essere ancora l’ultima cena tra me e Cristo? Tra me e Dio? Dopotutto non ci si siede a un tavolo per mangiare? Ma può darsi che si tratti di una cena galante e magari tutti questi ansiosi problemi sono solo tormenti senza senso di un ipocondriaco. Magari adesso si materializza una donna in serici veli che si esibisce in una sensuale danza del ventre, chissà. Mi godo questa nebbia e quest’atmosfera sospesa. Fuori forse imperversa un temporale. Ogni tanto le vetrate si illuminano di bluastri bagliori. Gocce cadono dalle alte soffitte della stanza e creano una sorta di amplificazione polifonica come dentro a una grotta. Non c’è freddo, anzi sembra che un certo tepore si diffonda da qualche luogo. Non è improbabile che un camino stia ospitando un fuoco. L’orologio continua a essere rotto e nebbioso e io aspetto, aspetto senza stancarmi. Sono ormai passati giorni e notti. Non riesco a capire da quanto stia seduto in questo tavolo ad aspettare. Forse un minuto, forse un anno, forse la vita intera, forse l’eternità. E’ possibile che chi doveva arrivare sia arrivato e se ne sia andato senza che io l’abbia scorto. E’ vero non ho sentito alcun rumore rilevante, ma questo non prova niente. Il tavolo è talmente lungo che non posso inferire quanto sia lunga la camera e ad una certa distanza non sentirei certamente alcun rumore di passi. E se fossi sottoterra? Dentro la bara? E se il legno è la copertura interna della bara e il resto semplicemente lo stia immaginando? Ma che pensieri lugubri! Preferisco pensare altro. Ora mi metto a ripassare tutti i baci che ho dato in vita mia. Però devo considerare le ipotesi meno vantaggiose per me, così che non mi trovi impreparato a doverle affrontare. Ma ecco che sento finalmente un rumore di passi. Un’ombra si staglia dietro la vetrata e si dirige verso un’apertura di fronte a me. Ecco che sento una porta lontana cigolare sui cardini. I passi ora sono dentro la stanza. Si stagliano con una presenza sonora molto più marcata. Dall’ombra informe si definisce una sagoma dal viso inespressivo che si ferma proprio davanti a me restando in piedi e fissandomi. Mi rendo conto che quella sagoma sono io stesso.

sabato 27 dicembre 2008

numerate fiale ermetiche di siero

Caronte. Immagine di Dorè .
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Pensieri
sieridipenna




Fiala di siero 137.


137.1
Sono morto. Mi ritrovo in una stanza di un vecchio edificio con i muri gibbosi, macchie di muffa e calce bianca in parte scrostata. Non so come ci sono entrato, forse ho aspettato il turno. Forse il turno è stato la durata della mia vita. Fatto sta che sono solo in questa stanza troppo grande nella quale mi sento come nel deserto. Sono nudo e mi vergogno. Il silenzio mi avvolge, amplificato da gocce d’acqua che cadono dal soffitto e rintoccano dentro bacinelle già semipiene. Di fronte a me, molto distanti, due impiegati seduti a un tavolo. Dietro di loro un'imponente porta di legno che sovrasta la loro piccola scrivania. Uno dei due sbadigliando mi chiama per nome e cognome. Lo sbadiglio gli deforma il volto e il suono delle parole. Rimango fermo, esito. Allora allunga un braccio e dal pugno chiuso – con le nocche rivoltate verso l’alto – distende l’indice e poi lo richiude nel pugno. Sembra piuttosto una sorta di bidello o di portinaio annoiato delle sue mansioni. Baffettini abbassati, spioventi, misurati; i capelli oleosi con un temerario rivoltino tentano di coprire un’impietosa calvizie. Fronte piena di rughe parallele, occhi malinconici come di chi abbia superato anni di febbri malariche; i denti guasti e ingialliti. E’ chiaramente un povero, una specie di sottoproletario, abituato a vivere di espedienti. Ripete il gesto del dito tre volte senza fissarmi né parlarmi. E’ il cenno inequivocabile che devo avvicinarmi. Sono arrivato proprio davanti al tavolo ma continuano a non guardarmi.
L’altro, il capo abbassato, sta scrivendo – credo i miei dati anagrafici – in un registrone incartapecorito. Noto diverse macchie di unto nelle grandi pagine scritte a mano, cancellature vistose e correzioni sbilenche sulle righe. Alterna la scrittura dei miei dati con continue divagazioni sulla Gazzetta dello Sport, la sua faccia mi rimane spesso nascosta dietro il giornale.
Ora alza lo sguardo e mi fissa, ma solo per un istante.
Assomiglia a Nino Manfredi, ha un tic in un occhio, la barba incolta da almeno cinque giorni, una vecchia giacca con i gomiti laceri e stropicciata.
Viene, a questo punto, richiamato dal primo, con un marcato accento palermitano.

- Minchia a vuoi finiri i lieggiri stu cazzi i gioinnàli? Aviemu a Caruollu.

Allora con un certo fastidio alza gli occhi e mi squadra annoiato da capo a piedi. Mette di lato il giornale.

- Camurria.

Noto ora le sopracciglia scandalosamente folte, occhi lucidi e acquosi di alcolizzato in un viso smunto, le guance incavate, il naso adunco.
Capisco che sono i custodi dell’aldilà.
Capisco che il mio aldilà è popolare, scalcinato, guitto.
Dopotutto non mi è finita male. Il mio tribunale è formato da un san Pietro e un aiutante che sembrano usciti da un quartiere malfamato di Palermo.
Non ci sono angeli alati con spade, né santi ieratici.
Forse i miei giudici saranno più comprensivi.
Più umani.
Forse perfino Dio – oso pensare – è scalcinato come loro. E come me.
Anche se mi manderanno all’inferno giuro che mi sento più sollevato.
Dio almeno non è borghese.


137.2
Sarebbe stato noioso un Dio assiso su un trono, con le schiere degli angeli che suonano le trombe e le folle delle anime che intonano canti.
I beati mi danno sui nervi e io sono irrimediabilmente stonato dalla nascita.
A parte che non sono d’accordo su quest’affare delle lodi e dei canti al Dio padrone dell’universo. Sono piuttosto dalla parte degli operai che dei padroni io.
Meno male quindi che gli uscieri dell’aldilà sono questi due malandati che sembrano gli attori non professionisti dei film di Ciprì e Maresco. Una variante di Franchi e Ingrassia.
Uno poco fa si grattava la testa in un raptus scimmiesco: la sua forfora si sollevava in aria e ricadeva con effetto neve; e l’altro un momento prima aveva alzato un’anca dalla sedia e lasciato partire un peto, visibilmente sollevato in viso.
Ma – penso ancora – se il paradiso è noioso allora sono all’inferno?
Oppure Dio regna sull’inferno?
Così si spiegherebbe il male del mondo.
Ma allora – mi lancio in grappoli di congetture e conseguenze – se Dio regna sull’inferno Dio è Satana? O Satana in realtà è il Dio padrone assiso nel suo trono dorato con tutte le anime che schiave e genuflesse lo adorano? O Dio è sia Dio sia Satana, come noi che siamo sia bene che male?
Dio forse è un picaro semianalfabeta – come quei due – che è riuscito ad abolire l’inferno.
Infatti mi chiedo: se Dio è pietà misericordiosa, se Dio è padre di tutti gli uomini, come potrebbe un padre condannare i suoi figli alle pene eterne dell’inferno? Lo farei mai io con i miei figli? Non può esistere un padre così orribilmente vendicativo.
Dice, ma siamo noi che in realtà creiamo l’inferno e ci condanniamo da soli con i nostri peccati: balle.
Forse Dio è riuscito ad abolire sia il paradiso che l’inferno. Il primo perché palesemente noioso e nessun re si divertirebbe con una corte di estremi ruffiani che lo inneggiano per l’eternità; il secondo perché, ripeto, nessun padre potrebbe punire i propri figli fino a condannarli alle pene eterne.
Il purgatorio? Mah, mi sembra un improbabile regime di mezzo, un compromesso: una specie di soluzione democristiana, insomma. Tutt’al più – penso – il purgatorio è la vita sulla terra; invece nell’aldilà sarebbe una sorta di prolungamento ingiustificabile per una mente divina, una sanatoria edilizia, una cosa così. Forse inferno, purgatorio e paradiso sono solo nella nostra mente. Forse che dopo una vita vissuta, dopo la vecchiaia – per chi ci arriva –, la malattia, la perdita delle illusioni e infine la bara, chiunque, anche il più cattivo – che già ha pagato con il peso dei suoi peccati sulla coscienza – non ha il diritto di riposarsi nel nulla eterno, senza che nessuno gli caghi più il cazzo?
Ma mi accorgo di essere già diventato acido, troppo pesante. Allora mi guardo a uno specchio e mi dico in faccia:

Ridi, cazzetto, ridi e vai!

lunedì 20 ottobre 2008

Pen-sieri Sieri di penna


PEN-SIERI
Sieri di penna
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Immagine di B. Carollo
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Numerate fiale ermetiche di siero
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119.

In un paesino c’è una piazza immensa. I suoi confini non sono conosciuti. Si vede l’inizio ma nessuno ha mai percorso tutta l’estensione. Non si sa da quanto tempo esista e chi e perché l’ha costruita. È una piazza asfaltata perlopiù o lastricata; grande, smisurata come il mare. Il paese è piccolo, modesto, senza fabbriche, di circa tremila abitanti. Nel centro assolato e desertico della Sicilia. I ragazzi ci si avventurano a passeggiare ma hanno una specie di timore reverenziale. E se si spingono oltre li prende la paura e vogliono subito tornare a passeggiare nella piazza ma lambendo i caseggiati, o comunque tenendoseli a vista d’occhio. E’ come se avessero paura che un sortilegio li colpisse. Come se la stessa piazza fosse il risultato di un incantesimo inspiegabile perpetrato tanto tempo fa. Spulciando nella biblioteca del paese non ci sono notizie circa l’origine della piazza. Sembra che ci sia sempre stata. Una specie di reticente omissione prende gli storici locali che cominciano come al solito i loro libri con l’incipit rassicurante “Alqamah è una ridente e operosa cittadina adagiata alla falde del Monte Bunifat…”, ma fanno bene attenzione a non menzionare la piazza in questione: come se non esistesse. Tutti, in effetti, in paese fanno finta che non esista e non ne parlano mai nei loro discorsi. Solo i bambini e i ragazzini a una certa fase della loro età ne discutono animatamente, ma poi, dopo un certo periodo, rimuovono il problema e continuano la loro vita di sempre. Solo al fuoco dei focolari in certe notti stellate di villeggiatura i vecchi possono a volte essere indotti dai più giovani a vincere la loro estrema riluttanza. Allora qualcuno degli anziani, dicono, si sia lasciato scappare qualcosa, ma è tutto un farfugliamento e non si ha alcuna certezza. C’è chi sostiene, per esempio, che nessuno vada verso il centro ignoto della piazza immensa perché questa potrebbe improvvisamente trasformarsi in un mare o in un lago senza confini e far annegare chi ha osato avventurarsi lontano. A volte per la verità qualcuno si è inoltrato in fondo ma non è più tornato. Qualche altro che è andato a cercarlo è tornato senza ritrovare niente e si è chiuso in un ostinato mutismo, o in logorroiche perifrasi senza peraltro riuscire a spiegare nulla. Di sicuro c’è che penetrando nella piazza, di quanto ti allontani verso il centro ignoto di tanto sembra avvolgerti in una specie di magia, per molti di maleficio. Qualche decennio fa si organizzò una vera e propria spedizione, con carretti, muli, cani, tende e viveri. La spedizione tornò dopo due anni e il suo unico risultato fu di trovare solo degli scheletri di umani sul selciato infinito in ogni direzione. E nessuno poté dire di essere arrivato al centro della piazza o di averne percorso una precisa quantità, perché non si può stabilire dove sia il centro di uno spazio indefinito in ogni direzione, né quanta distanza sia stata percorsa rispetto all’interezza della piazza che rimane del tutto sconosciuta. Uno dei misteri è la pavimentazione della piazza, fatta di asfalto, selciato, blocchi di pietra e di altro materiale più povero e via via più naturale, come terracotta, poi terra schiacciata con paglia, poi semplici pietre a secco sempre più sconnesse. Qui bisogna fare una precisazione. Non è che la piazza sia davvero non misurabile. Diciamo che fisicamente è attraversabile ma, nonostante ciò, la sua sostanza resta misteriosa ed infinita. Infatti alcuni delle avanguardie delle carovane esploranti sono riusciti a raggiungere un luogo nel quale l’asfalto finisce e comincia senza soluzione di continuità la campagna. Una campagna brulla, silenziosa, calcinata e disabitata. Ma scavando sotto la terra rocciosa dove crescono solo arbusti, muschi e licheni, si è scoperto in uno strato sottostante un resto di antiche pavimentazioni di pietre a secco sconnesse. Molti per la verità affermano che non sono opera dell’uomo ma della natura con le sue casuali sedimentazioni rocciose. Altri invece sostengono che la piazza continua. Perciò non si può stabilire se in tempi antichi la natura non abbia preso il sopravvento sull’asfalto o su altro tipo di pavimentazioni e abbia semplicemente coperto ed occultato la piazza. Infine c’è chi sostiene che se anche la piazza finisse e cominciasse la campagna, sarebbe lo stesso: chi può escludere che il progetto originario non prevedesse appunto tale suo “innaturamento” nella campagna? Chi ci dice che la campagna non faccia parte della piazza? I puristi della tesi massimalista dell’estensione infinita della piazza arrivano a postulare che essa comprenda originariamente secondo il progetto dei suoi costruttori anche la campagna circostante, il mare, i monti e tutto il resto, cieli compresi. Poi c’è chi si arrovella su chi sia o possa essere stato il costruttore di una simile piazza. Uno? Molti? E le motivazioni? Il fatto è che comunque nel paesino nessuno ne parla volentieri e tutti, ripeto, vivono facendo finta di niente. Molti restano nel paese fino alla morte, altri tentano la fortuna cercando di sfidare la piazza. Tutti alla fine muoiono nel tentativo di percorrerla per intero. Questa piazza deve però sicuramente portare una maledizione, perché nessuno alla fine ritorna indietro vivo. Anche chi vive cento anni nel tentativo di attraversarla muore senza saperne i confini. Tanti hanno perciò deciso di adorare il costruttore misterioso della piazza. E pur senza conoscerlo sostengono di avere fede in lui e affidano la propria vita a lui. Altri non ci credono; la maggior parte vive come se non esistesse né la piazza né il problema del credere o no a chicchessia. Io sono uno di quelli che in tempi lontani, quando ero giovane, si incamminò dentro la piazza deciso a percorrerla fino in fondo. Man mano stendevo scrupolosi appunti di viaggio ma ora vedo che questi appunti mi hanno ostacolato o forse semplicemente mi hanno portato sfortuna. Capisco di essere caduto anch’io vittima del contagio. Allora ho strappato tutti i fogli scritti in precedenza e anche quest’ultimo foglio che sto scrivendo farà la stessa fine. E’ meglio non parlarne più e proseguire muto. Tanto non saprò mai la vera sostanza e l’entità nascosta di questa piazza misteriosa. Meglio non pensarci e vivere come tutti gli altri. Ma il fatto è che se uno comincia a porsi il problema allora la passione lo porta ad avventurarsi dentro la piazza. E a restare inghiottito nella vastità del suo centro infinito. Scrivo questi ultimi appunti e li abbandono in mezzo alla piazza al centro della quale (al centro? Chissà…) mi spinsi molti anni fa col solo risultato di essermi irrimediabilmente perso come tutti gli altri. Non si vedono più forme viventi, né vegetali né animali, nel cielo c’è solo appena un alito di vento che presto si fermerà in un’assoluta bonaccia. L’alternarsi di giorni e di notti si è alterato e un giorno dura tantissimi giorni. O forse così a me sembra perché comincio a perdere la cognizione di me stesso e dei miei organi sensoriali. Ora camminerò in una direzione qualsiasi, solo, senza quasi più viveri, e senza speranza di trovare la via d’uscita. Non scriverò più e forse nessuno mi troverà mai. Vivo o morto che sia.

120.

120.1
Un primo piano di una donna e di un uomo. Sono vicini, chiacchierano, si stanno seducendo, ridono. Lui socchiude a volte gli occhi luminosi. Lei risponde con colpi di ciglia rapidi; un sorriso delle labbra appena accennato. Da distanze indefinibili a intermittenza ovattata si espande gracchiante e nasale una maliziosa voce maschile di una melodia d’altri tempi; forse c’è un vecchio grammofono dorato da qualche parte. I due sono eleganti, in abiti da sera. Lei è in decoltè; un pendente luccicante al collo tenuto da un’esile catenina d’oro. Lui, con i capelli imbrillantinati e un ineccepibile gessato, le accarezza l’omero delicatamente con l’indice in un gesto naturale mentre continua a parlare fissandola. Il primissimo piano si allarga di un metro e scopro che sono seduti su di un divano rosso. E’ un divano in stile classico barocco, con la stoffa di broccato pregiato a motivi floreali bianchi su fondo rosso; il legno è scuro, tutto intarsiato e intagliato con figure mitologiche. Mostri, fauni, centauri, silfidi, ninfe. Posso scrutare come al microscopio le trame naturali del legno. Il divano è grande e vetusto. Qua e là qualche buchino attesta la presenza di termiti. Non riesco a seguire la conversazione, non perché non sia in italiano – capisco che parlano in perfetto italiano – ma è come se le parole mi arrivassero deformate da difetti fonici. Come un brusio derivato da una distorsione della pronunzia; una specie di cicaleccio. Più mi concentro più non riesco ad acchiappare il bandolo della conversazione. Soltanto qualche parola mi arriva perfettamente distinta, qualche parola e basta. La zumata si allarga ancora di un altro metro e vedo che i piedi a testa di leoni del divano sono semisommersi dalla sabbia. Il vento, che ora si ode fortemente a raffiche ululanti – era per causa del vento che non potevo seguire la conversazione? – solleva vortici di sabbia che si accumula a terra, attorno ai piedi del divano e anche sui grossi cuscini. I due continuano a parlare amabilmente trascinati dal gioco della seduzione e dalle regole galanti della conversazione borghese. La zumata si allarga fino a divenire un grandangolo e ora vedo il divano e i due che conversano molto lontani. Sono soli, seduti sul divano in mezzo a dune di sabbia. Enormi e chilometriche dune di sabbia come onde che si rincorrono parallele a perdita d’occhio. Il divano si distingue appena nell’intercapedine di due dune fra innumerevoli altre dune. Siamo in un punto imprecisabile nel cuore del deserto del Sahara. Il vento ulula e alza una tormenta di sabbia. Il sole sembra piantato con i chiodi nel mezzo esatto del cielo: non si muove di un millimetro. La luce accecante rende ogni cosa luminosa e senza spessore. Luminosa fino all’estremo biancore insostenibile.

120.2
Il divano con i due è sulla punta dell’Everest. Estremi picchi montuosi, ghiacci. Di lato si intravede lontanissima una stradina senza protezione in un fianco del monte a dirupo sull’abisso. Solo qualche yak piantato sugli zoccoli si è inerpicato quasi fino a loro. Il suo occhio convesso riflette in un bianco e nero deformato il divano e i due che continuano a parlare amabilmente del più e del meno.


120.3
Il divano rosso, il divano barocco con i due, è ora in una grotta sommersa in fondo all’oceano. Stranamente mi sembra naturale che possano respirare sott’acqua come se nulla fosse. Il divano è asciutto e anche loro. Le parole si sentono amplificate ed echeggianti nella massa blu dell’acqua. Ma si confondono con lontani ancestrali respiri di capodogli e canti di megattere in amore.

120.4
I due sul divano sono vivi? Sono morti? Sto forse sognando? In che modo io posso vederli? E’ un messaggio per me di qualche maestro occulto mandato da mie esistenze passate o future attraverso i sogni? Devo capire qualcosa? E cosa? Cosa può simboleggiare tutto questo? Chi sono questi due? Mi sembrano sconosciuti. Saranno miei lontani progenitori? O forse miei successori? Figli dei figli dei miei figli? Non saprei. Potrebbe essere la visione di un mio momento vissuto in futuro? O in vite future? O in vite passate? Il maschio potrei forse essere io in qualche altra incarnazione? Allora se prendiamo le possibili incarnazioni potrei essere io anche la donna. Potrebbe perfino darsi il caso che possa essere io sia la donna sia l’uomo: cioè loro due potrei essere io in separate esistenze. Due me di esistenze diverse che nella visione possono incontrarsi e parlare. In questo caso sarebbe stato importantissimo sapere cosa si stessero dicendo. Ma non è dato di saperlo: la conversazione purtroppo era indistinguibile. Ma sembrava una conversazione effimera e fatua! Però poteva darsi che sotto la leggerezza di una conversazione galante i due me mi stavano mandando un messaggio di vitale importanza, chi lo sa. Se lui ero io forse lei poteva essere la mia anima gemella? Poteva anche essere la morte? La morte potrebbe venire come una sensuale donna per sedurmi? O era il mio angelo custode? O ero entrambi io, come avevo detto prima, solo che uno dei due ero forse io illuminato e tornato sulla terra come buddha perfetto per parlare con l’altro me che ancora doveva percorrere infiniti kalpa ed eoni di karma per raggiungersi. In questo caso può essere che la nostra identità sia divisibile in identità plurali di esistenze parallele? Di esistenze che però possono infrangere il velo dello spazio-tempo dentro il quale stanno scorrendo? Come mai il divano si trovava in posti così estremi? Significa forse che tutto il mondo consueto è solo uno scenario di parvenze? Che tutto il nostro pianeta è un teatro di ombre cinesi? Forse i due erano il principio maschile e quello femminile – yin e yang – dell’universo? Può darsi che erano Dio padre e la Madonna? Saprò mai rispondere anche solo in parte a queste domande? E se anche potessi trovare queste risposte, chi mi dice che le domande decisive non erano altre e totalmente diverse da queste che mi sto facendo?

sabato 18 ottobre 2008

Calatubo, eutanasia di un castello


Vorrei scrivere questa nota per aforismi, quasi con pensieri franti, come si addice alla descrizione di un castello che si frantuma.
Calatubo è il sito più antico del territorio alcamese, il più anticamente importante, con continuità di insediamenti dalla preistoria alla protostoria, al medioevo.
Fu un centro della cultura sicana, greca, romana, araba…
Idris lo descrive nel 1154 come un grande casale arabo, pieno di vita, con campi di grano ben coltivati, con un porto di mare.
E’ abbandonato, violentato, rubato pezzo per pezzo, mattone per mattone, pietra per pietra, obliato.
Scavato clandestinamente da tombaroli perfino con ruspe.
La necropoli completamente saccheggiata, cancellata; le ossa dei morti oltraggiate, disperse.
Ci ha dato frammenti, vasi greci, coppe ioniche, kilikes, skyphoi, anfore, lucerne ombelicate, assi romani, anse con bolli di Rodi, di magistrati eponimi, che ricostruiscono indirettamente le vie mediterranee del vino, del grano, dell’olio.
C’è un reperto misterioso poi, naturalmente trafugato e perduto: una maschera fittile di produzione locale del VI secolo a.C..
E’ un volto magnetico, ha occhi a mandorla che fissano lontano, stregano, e un naso prominente sulla bocca atteggiata a un enigmatico sorriso. Potrebbe essere maschio o femmina, un giovane o una vecchia; fissa i millenni, penetra nell’oltretempo: è il volto di uno sciamano elimo o il sorriso dell’Essere originario?
Il castello di Calatubo fu edificato superbamente su una rocca a strapiombo per essere inespugnabile.
Con una battaglia sul campo sarebbe stato imprendibile, invece è stato distrutto, quasi raso al suolo.
Chi lo progettò non poté prevedere la venuta di un nemico così barbaro.
Il castello di Calatubo infatti non è caduto a seguito di un’invasione dei Vandali o dei Visigoti ma per mano di una più terribile orda barbarica: l’ignoranza e l’inanità delle amministrazioni comunali.
Altra invasione dunque più subdola lo ha abbattuto, meno clamorosa, meno combattibile e più esiziale.
Un serpentone autostradale lo irride, il tempo lo erode, l’indifferenza lo sommerge.
E muore in una malinconica eutanasia.
Sarei tentato di plaudire a questa estasi d’abbandono: c’è poesia, emblema, contrappasso, destino, la cifra della Sicilia eterna e maledetta.
Sensuale misticismo d’atarassia nell’oblio.
E’ il sorriso ironico dell’eternità, il sorriso di sciamano del misterioso uomodonna della maschera.
Ogni tanto una sparuta delegazione di pinguini in giacca e cravatta si arrampica fino alla rocca, celebra sbrigativamente un rito di vuote parole, assicura l’impegno inderogabile per salvare il castello: sono assessori, sindaci, onorevoli.
Vi dico: piuttosto che questo teatrino meglio il silenzio. Non parliamone più.
C’è almeno poesia in questa rovina senza ritorno, nel mormorare del torrente Finocchio tra una raffica di vento e l’altra nelle torri diroccate, in un’ape che sopra i fiori viola del camedrio sibila preghiere in voli trattenuti e improvvise accelerazioni circolari come un dervisci in estasi in una danza sufista.
Il castello si inabissa lentamente in una lotta impossibile contro l’eternità e cede alle ultime dolci invasioni: l’abbandono, le argentee colonie di assenzio, gli eserciti dell’ortica, della malva verde, le piante pendenti di capperi fioriti nei muri…
Cede anche all’oltraggio distratto di un pastore che da decenni vi dimora col suo ovile e forse non ha pensato di essere l’ultimo abitante di Qal’at awb, il grande casale arabo, l’ultimo signore del castello dopo una interminabile catena di nobili: … Berloni, Peralta, Duca di Bivona, Moncada, De Ballis, Papè, principe di Valdina…
Le pecore, le bibliche semitiche pecore.
Quella in fondo ad est, triangolare, è la “torre dei colombi”, sempre piena del loro tubare gutturale, come volessero comunicarci il segreto del castello con i suoni criptici di un alfabeto esoterico.
E questa di Sud ovest è (era, è crollata da due anni) “a turri d’u Re Biddicchiu”.
Il barone D. Nicolò Flugj Papè nel libro Calatubo di mons. Regina: “(…) sotto questa torre si trova una galleria segreta. Fu murata all’inizio del secolo dal principe D. Pietro Papè in seguito al grave incidente occorso a un giovane impiegato del castello. Vi era entrato per curiosità e ne era uscito muto per sempre, forse traumatizzato dal rinvenimento di scheletri umani: si trattava di resti mortali venuti probabilmente alla luce durante le vangature ed ivi depositati. Era chiamata la torre d’u Re biddìcchiu perché secondo una leggenda vi era stato tenuto prigioniero un figlio ancora in tenera età, forse naturale, del re Martino”.
Meglio non entrare nei cunicoli, potrebbero assalirvi voci di fantasmi, di turchi, i lamenti di “u re Biddicchiu”, o il volto di medusa della maschera dello sciamano.
Dal castello tutto è magia, apparizione iniziatica, vertigine: il mare sembra una stoffa, le montagne onde improvvisamente pietrificatesi, le colline tappeti volanti.
Trent’anni dopo del geografo Idris, nel 1184, il pio pellegrino della Mecca, l’andaluso Ibn Gubayr, naufrago in Sicilia, partendo da Palermo e diretto a Trapani, arrivato a Carini, preferì la via interna e passò per Calatubo. Quindi sostò una notte in una borgata detta Alqamah, piena di mercati e moschee: “(…) Di là partimmo e dopo un breve tratto arrivammo al castello detto Hisn allamah (castello dell’acqua termale). Scendemmo dai cavalli e ristorammo i corpi con un bagno…”.